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VRBISVETERIS ANTIQVAE DITIONIS DESCRIPTIO

VRBISVETERIS ANTIQVAE DITIONIS DESCRIPTIO
Prima corografia a stampa del territorio orvietano1

Silvio Manglaviti

Premessa.
Tra le riproduzioni più antiche conservate nella Biblioteca dell’Istituto Geografico Militare (d’ora in avanti: I.G.M.)2 vi è una stampa cartografica relativa al Territorio di Orvieto a firma “F.EGNATIVS.DANTES.ORD.PRAED:” intitolata a “Monaldo Monaldeschio” nell’anno “MDLXXXIII”. La carta, che data 1583 ed è dedicata al nobile orvietano Monaldo Monaldeschi della Cervara. È un’opera di Egnatio Danti, frate dell’Ordine dei Predicatori (Domenicani). Danti è uno dei maggiori cartografi del XVI secolo che fu cosmografo del granduca Cosimo I a Firenze – restano oggi alcune sue realizzazioni in Palazzo Vecchio e a Santa Maria Novella – e di papa Gregorio XIII per il quale curò l’apparato geo-iconografico della Galleria delle Carte Geografiche – già del Belvedere – attualmente parte integrante dei Musei Vaticani, la costruzione della Torre dei Venti, il posizionamento dell’obelisco in piazza S. Pietro. Danti fu personaggio di spicco nella Commissione per la riforma del calendario e operò indefessamente nelle terre del Patrimonio, dall’Emilia all’Umbria al Lazio, realizzando opere da Bologna a Perugia a Roma.
Per il ricco apparato iconografico e per la finezza esecutiva, l’“Urbisveteris …” dantiana si può ben paragonare – fuor di retorica – ad un’architettonica “terrazza fiorita”, affacciata su oltre due secoli di storia della “regione” orvietana. Essa rappresenta senza dubbio un’importante fonte documentaria sia geografica sia storica sull’evoluzione del nostro territorio a partire dalla prima metà del Trecento: periodo in cui Orvieto – Urbs Vetus –, sotto la “signoria” ante litteram di Manno Monaldeschi, avo di quel Monaldo cui è dedicata la carta orvietana del Danti, si trova all’apice della sua valenza geopolitica. Da comune libero ad aspirante potenza locale del centro della penisola, in quell’entroterra del versante tirrenico ove è costretta a confrontarsi, di volta in volta stringendo alleanze salvo poi combattervi contro alla prima occasione di scontro (quasi sempre peraltro necessarie a dirimere le frequenti querelles territoriali), con Firenze, Arezzo, Perugia e Siena; con quest’ultima, in particolare, dopo un’iniziale amicizia, lunga e aspra sarà la lotta per il dominio sulle terre aldobrandesche, “cuscinetto” tra i possedimenti imperiali e quelli di San Pietro. Millecinquecento anni dall’etrusca Velzna/Volsinii, caput etruriae, nei cui pressi aveva sede il Fanum Voltumnae; ultima fra le “polis” della dodecapoli ad essere rasa al suolo da Roma nel 264 a.C. che ne deportò gli abitanti nella non lontana colonia prospiciente il lago di Bolsena.
Come tutte le opere che mettono in movimento il Pensiero, anche la nostra dunque costituisce un “ponte”, uno strumento che consenta collegamento e comunicazione, certamente tra due luoghi del Tempo ma anche dello Spazio. Un luogo nel quale il fluire degli eventi, la scansione, attimo dopo attimo, della realtà prende forma (riconoscibile) e dimensione (definita). Uno strumento per entrare e viaggiare in luoghi di memoria, dunque di connessione mnemonica, nella misura in cui proprio la facoltà della memoria rappresenti il collegamento tra passato e presente; medium, “oggetto di memoria”.
Se i luoghi della memoria sono “siti”, ‘fermi-immagine’ del tempo trascorso, onde portanti sulle quali è stata ‘modulata’ la realtà, l’oggetto di memoria è “prodotto materiale”, risultato delle opere dell’umanità, il quale racchiude in sé, rappresentando momenti significativi delle azioni e delle dinamiche umane, un “alto valore simbolico”, un significato “totale” e non soltanto la funzione di ausilio del ricordo. Così è in grado di evocare «[…] il senso di appartenenza condiviso dai membri di un determinato gruppo quali possono essere una tribù, un lignaggio, un’etnia, una nazione […]».3
La carta di Egnatio Danti per Monaldo Monaldeschi, come oggetto di memoria, offre l’opportunità “di connettere l’identità collettiva con la dimensione spaziale”, costituendo il link “memoria-evento” (verificatosi in uno spazio determinato), “memoria-coordinate spaziali”.
Così come i churinga degli aborigeni australiani (tavolette/mappe con su incisi linee e cerchi indicanti l’itinerario percorso dagli antenati sul territorio) rappresentano il “racconto iniziatico” per accedere alla memoria della comunità, la carta del Danti si pone l’obbiettivo di fornire elementi di supporto alla descrizione dei luoghi dell’antica nazione orvietana. Non importa quanto corrisponda a verità ciò che l’oggetto di memoria trasmetta e penso alla funzione in vero più psicologica che notarile degli shorfa tunisini, documenti genealogici il cui fine è quello di legittimare la gestione del potere da parte delle famiglie nobili; tali documenti sono non sempre producibili dai tenutari e non sempre attendibili. La divulgazione della storia – il racconto delle verità storiche di un’enclave ecumenica – è intimamente connessa con l’azione di governo, con i processi di normalizzazione; è la gestione del potere: storia, memoria, identità, cultura e civiltà sono sfaccettature riconducibili ad un unico modello generatore.
La carta, per nascita, è illustrazione; è immagine. Prima di essere, e divenire, strumento scientifico è «strumento del Pensiero» (Numa Broc).
Non per nulla, a corredo (o complemento?) della rappresentazione spaziale (di uno spazio definito), sulla carta – soprattutto a partire da quelle rinascimentali e cinquecentesche – si ritrova un ricco apparato iconografico-didascalico a volte ipertrofico talché paia fagocitare la stessa rappresentazione geografica. «[…] Gli elementi decorativi o documentari corrispondono a un evidente horror vacui e servono a riempire gli spazi bianchi […] a mascherare carenze del cartografo. Ma sarebbe errato non vedere in essi altro che elementi di pura fantasia; molte rappresentazioni denotano al contrario grandi qualità di osservazione e anche un certo realismo […] Scudi, stendardi, bandiere ornate di stemmi testimoniano la funzione politica della carta […] per affermare le pretese territoriali di un sovrano.»4
Si è comunque di fronte a un’“azione culturale” nella quale un «[…] messaggio viene affidato ad un’espletazione grafica di disegno o d’incisione.»5
«E’ sulla carta e con la sua mediazione che la Terra degli uomini diviene cosa mentale. La carta è la proiezione della scienza geografica, il luogo proprio in cui essa prende coscienza di se stessa […] Grazie alla Cartografia e solo grazie ad essa, il globus mundi diviene un globus intellectualis.»6
«La cartografia in genere […] seppe assolvere la duplice funzione di arte e di scienza; particolarmente nelle espletazioni grafiche […] dove il messaggio topografico si riveste soventemente di varia coreografia […] Spesso a queste […] si aggiunsero concise esposizioni storiche che evidenziavano l’importanza dei luoghi rappresentati; o arricchite da insegne araldiche, per significarne la sudditanza verso il signore a cui (i territori) erano soggetti. Altre volte […] ebbero il compito di facilitare l’espletazione di un testo storico o geografico, formando con questo una univoca funzione didattica.»7
Così, anche l’opera di Danti, quale prodotto di arte e di scienza e strumento di comunicazione che assolve “il compito di illustrare il volto” di un territorio, può essere analizzata sotto la luce di una semiotica cartografica, dimostrandosi al tempo stesso un efficace strumento di interpretazione e di navigazione.8
L’immagine diventa lo stesso messaggio che essa contiene; un “portale” a disposizione di chiunque agogni avventurarsi per i canali dello spazio-tempo; il punto di partenza donde intraprendere un viaggio suggestivo su quelle stesse terre nelle quali ancora oggi interagisce e si sviluppa la nostra quotidianità.
Purtuttavia un certo pathos, un afflato che comunque accompagna sempre le dinamiche mnemonico-cognitive, può condizionare l’analisi stessa. Se cercar di comprendere il perché della nascita di un’opera – a chi e per cosa questa sia destinata – non sempre si mostri cosa facile, ancor maggiore è il rischio di immedesimazione (o di eccessiva estraneazione) nella stessa. Si può restare prigionieri dell’oggetto dell’analisi e dell’analisi medesima; la “sindrome di Stendhal” potrebbe evolvere in una sorta di “sindrome di Stoccolma”, tanto da far a vedere soltanto quello che vorrebbe si vedesse e viceversa. «[…] il paradosso della mimesis geografica (è quello di) riconoscere quel che non si è mai visto. La cartografia esibisce un’immagine di ciò che nella sua realtà è inaccessibile all’occhio umano.»9

Il Contesto.
La carta fu stampata nel 1583. Il Cinquecento, spinto dalla “rivoluzione intellettual-culturale” del Rinascimento, si può ben considerare “alba dell’età moderna”; è stato definito come “il secolo dei viaggiatori”: Cristoforo Colombo, Enrico il Navigatore, Bartolomeo Diaz, Vasco da Gama. Si “riscoprì” la sfericità della Terra, fu avviato il calcolo delle Effemeridi (J. Muller, alias Regiomontano) e perfezionati gli strumenti per la navigazione (bussola, sestante); conquista che permise l’affrancamento dalla navigazione a vista “sottocosta” per spingersi ad affrontare il mare aperto. Nicolò Copernico formulò la teoria eliocentrica nel De revolutionibus orbium celestium, consentendo a Giordano Bruno di divulgare la visione panteistica dell’universo, finalmente infinito e senza limes di un centro. Nuovi occhi scrutarono il cielo e Tycho Brahe, poi maestro di Keplero, realizzò il primo (per l’epoca nuova) osservatorio astronomico. Agricola aveva gettato le basi delle moderne mineralogia e metallurgia; Paracelso rifondò la medicina e la biochimica; Leonardo, studioso del Tutto e di tutto il Creato, aveva progettato (e andava sperimentando) le macchine per volare, la pompa, la pressa idraulica e mentre a Magonza Gutenberg dette alla luce la stampa a caratteri mobili, col torchio e fronte/retro, Aldo Manuzio, a Venezia, per primo intuì la stampa qual opera d’arte. Un secolo pieno il decimosesto cui non mancarono momenti oscuri e travagliati. Furono gli anni delle guerre di religione; del confronto-scontro tra il “vento” nordeuropeo della Riforma10 e la fede esposta, “sul campo”, di Ignazio di Loyola che con la Compagnia di Gesù dette notevole impulso al rinnovamento della Chiesa di Roma; questa, impegnata nel Concilio di Trento, speculava risposte in grado di contenere il pericolo epidemico rappresentato dal pensiero riformatore: e sarà la Controriforma. In politica, la Spagna, tenacemente contrastata da Inghilterra e Francia, malcelava le proprie evidenti tendenze egemoniche ergendosi a baluardo e strenua difesa della fede cattolica. La pace di Cateau-Cambrésis (1559) decretò tuttavia il dominio spagnolo sul Regno di Napoli, sul Ducato di Milano e sullo Stato dei Presidi. Cosimo era il Granduca di Toscana; Emanuele Filiberto rifondava il ducato savoiardo spianando la strada alla futura politica espansionistica di Carlo Emanuele I; la Repubblica di Venezia prendendo parte alla vittoria di Lepanto poteva riscattare la perdita di Cipro; Pio V, Gregorio XIII, Sisto V e Clemente VIII consolidavano il ‘principato’ sul Patrimonio.
Furono anni fecondi e caleidoscopici per l’arte e la cultura; quelli dell’Accademia fiorentina e della Crusca; Rabelais aveva già scritto Gargantua e Pantagruel; la Pléiade riproponeva lo stile classico; e poi ancora, il Don Quijote di Cervantes, Calderon de la Barca, il romanzo picaresco, Galilei, Spinoza, Moro, Spencer, Marlowe; e, su tutti, tal William Shakespeare con la sua visione realistica della tradizione e dell’antichità. Nelle arti figurative e in architettura, El Greco, Rubens, Tiziano, Luca Signorelli, Michelangelo, Giulio Romano, Vasari, Palladio, Tintoretto, Salviati, Bronzino, Antonio da Sangallo il Giovane, P. Bruegel il Vecchio, Veronese, Daniele da Volterra, Zuccari, Jacopo Bassano, Cesare Nebbia, Raffaellino da Reggio, Barocci, i Carracci, la denuncia del nudo osceno dell’Ammannati, Arcimboldi, Della Porta; .. la Moschea di Solimano a Istanbul, l’Escorial a Madrid …un secolo di luminose stelle; stelle nel cielo e stelle sulla terra: fenomeni prodromici all’età della Ragione.
A Orvieto, il quadro cinquecentesco appare in forme più grottesche di quanto fosse nel resto d’Europa; nel 1583, vi era vescovo Girolamo Simoncelli, «[…] giovanissimo pronipote di Giulio III e nostro concittadino […], che l’anno avanti era stato insignito della dignità cardinalizia.»11 Perali prosegue nell’affresco didascalico sul mondo orvietano di fine Cinquecento, allorquando «[…] per la controriforma cattolica più validamente che dai Sacri Tribunali aiutata dai nuovi e dai rinnovati ordini religiosi dediti alla educazione ed alla istruzione della gioventù12 ed alla restaurazione dei costumi, rifiorì in un certo senso lo spirito religioso; ma quella rifioritura non fu spontanea e semplice sibbene piena d’artificio e vestita, come ogni altra attività dello spirito, di mille strane superfetazioni.»13 Fa da cornice «[…] lo spagnolismo imperante, il barocchismo invadente, l’albagia dell’antica e della nuova nobiltà rinvigoritasi tra gli angiporti dei più ladreschi commerci e negli arraffamenti d’ogni genere compiuti a danno delle comunità e delle antiche e civili e pie istituzioni […]. Nondimeno, per opera degli spiriti eletti che s’appartavano, rifiorivano gli studi scientifici, storici e letterari, non scevri però d’infiltrazioni ciarlatanesche, ed i ciarlatani erano quelli che facevano meglio fortuna, fin tanto che una raffica, o il cessato vantaggio di chi li tollerava, non li spazzava via, o con le forche, o col costringerli ad allontanarsi dal campo delle loro imprese. D’altra parte il popolo si accontentava più delle apparenze che della sostanza, e, allietato dalle rappresentazioni pubbliche di tragedie e di commedie e dalle sempre allegre carnascialate, pago di raccogliere per sé le bricciole delle laute mense e delle feste suntuose, distratto dalle grandiosità che vedeva e che gli facevano vedere all’esterno dei palazzi e dentro le chiese, s’avviava giocondamente a divenire il vil gregge. Ed era lo stesso popolo che aveva fatto la grandezza della piccola patria. Orvieto, dove fino dal 1543 il Comune sussidiava cittadini che recitavano commedie, ebbe un suo teatro […] ed ebbe storici cittadini come Cipriano Manente e Monaldo Monaldeschi della Cervara14 […], signore di Trivinano e canonico di San Pietro in Roma.»15 Erano tempi «[…] in cui si esperimentavano garbugli d’ogni genere per impossessarsi delle pubbliche cariche e specialmente di quelle dove c’era da stare e da godere meglio; […] nei quali non si contavano le domande di patenti di nobiltà, da sfruttarsi in cavalierati, in uffici ed in prebende. Quelle stesse patenti che dal comune chiedeva ed otteneva (1603) Girolamo detto “l’Orvietano”15 per garantire l’efficacia di quel suo contravveleno […].»16 In seguito, “orvietano” finirà per divenire sinonimo di “uomo che inganna con parole pompose” (Voltaire). «[…] I Monaldeschi e i Filippeschi non portavano più solo i nomi gloriosi dei loro antenati, ma anche i nomi insignificanti di storiche reminescenze, e, se venivano a contesa, era più facile vederli liticare davanti alla Curia ed ai Tribunali, che lottare sulla via colle armi alla mano: al più mandavano i servi ad accapigliarsi per conto loro (1587). […] Di più ancora: la borghesia, grassa talvolta di danaro e di aderenze, contrastava, e con fortuna, gli uffici religiosi, cui eleggeva il Comune, alla antica nobiltà, che per i suoi cadetti forse aveva fondato quei Benefizi; e fa impressione vedere tra undici concorrenti ad una cappellania il nome d’un Ermanno Monaldeschi lasciato da parte per un Raffaele Scalza, al quale certamente avrà giovato la più o meno lontana parentela con l’architetto e scultore della città […].»17 Si parla di Ippolito Scalza, “dalla scuola di Antonio da Sangallo il Giovane, di Simone Mosca e di Raffaello da Montelupo”, maestro poliedrico e geniale, che può permettersi di creare opere soltanto in apparenza distanti l’una dall’altra: dall’“immagine della pietà” (come lui stesso la chiamava) nella cattedrale di S. Maria della Stella, alla mappa della città per Manno Monaldeschi (1584), fino al monumentale organo – di ben 5585 canne – del Duomo (1582-84). «[…] Il 24 ottobre 1581 il comandante della milizia orvietana affidava all’alfiere l’insegna rossa della città sormontata dalle armi di Giacomo Boncompagni generale di Santa Chiesa […].»18 Anche Orvieto, oramai da oltre due secoli senza più alcuna velleità di dominio territoriale, cercò purtuttavia di beneficiare dell’aria di rinnovamento culturale che si respirava in tutta Europa e pur non avendo l’opportunità di veder fiorire uno studium, grande fu la sua tradizione di dotti, di eruditi e di giuristi, come Papirio Cartari, Fabio Timei e Giacomo Cohelli. La città ebbe il suo Seminario fin dal 1566; una “propria tradizione letteraria e scolastica mai interrotta”; rinunciò, nel 1584, al collegio di Gesuiti poiché il Comune non riuscì ad ottenerlo per come lo desiderava. E questo fu l’anno seguente alla carta di Egnatio Danti e quello stesso dei Comentari di Monaldo Monaldeschi.

L’autore.
Egnatio Danti nacque a Perugia con il nome di Carlo Pellegrino, alla fine dell’aprile del 1536, da Giulio, architetto, matematico, orefice e fonditore, il quale aveva anche inventato uno strumento per «leuare le piante delle Provincie»; un fratello di Egnatio, Vincenzo, fu celebre scultore, pittore e critico d’arte. Il nonno paterno Piervincenzo de’ Rinaldi, alias Danti (in onore al sommo autore della Divina Commedia), fu astronomo (come poi un’altra figlia, Teodora) e ideatore e costruttore di strumenti astronomici. 
Il 7 marzo 1555 Carlo, diciannovenne, entrò nel convento di S. Domenico, a Bologna, dove avevano luogo alcune sessioni del Concilio tridentino, assumendo il nome di Egnatio. L’Ordine dei Frati Predicatori, ordine dotto, fondato circa due secoli e mezzo prima da Domenico di Guzmàn20 con lo scopo di contrapporsi dialetticamente all’eresia degli Albigesi, godeva di giusta fama a Bologna ma soprattutto a Parigi21, sede di antiche ed importanti università.
Nel 1562 il duca Cosimo de’ Medici lo chiamò presso la sua corte, a Firenze, per realizzare la Cosmografia (cinquantasette pitture a olio delle regioni del mondo) sugli sportelli degli armadi della cosiddetta “Guardaroba Nuova”22 di Palazzo Vecchio (nel palazzo realizzerà anche un mappamondo per l’omonima sala); «[…] un’opera che di quella professione non è stata mai per tempo nessuno fatta né la maggiore né la più perfetta […]» (Vasari)23. L’opera palatina, concepita dal duca e affidata a Danti, sarà portata a termine da Stefano Buonsignori; fu «in sostanza» – secondo Almagià – «il primo tentativo […] di presentare, sia pure in forma inconsueta, una raccolta completa ed organica di rappresentazioni cartografiche di tutte le regioni del mondo, un atlante moderno» prima di quello di Antonio Lafréry del 1569. A Firenze Danti ottenne anche una cattedra, o «letture di matematiche», all’Università e condusse gli studi sulle misurazioni della lunghezza dell’anno. Alla morte di Cosimo, sopravvenuta nel 1575, suo figlio Francesco (incline pare a certe pratiche alchemiche tendenti all’esoterico) fece sì che Danti fosse richiamato a Bologna dal padre generale, ostracizzandolo di fatto da Firenze.
Dallo Studium felsineo, dove insegnò «matematiche», nel 1576 venne anche incaricato de «l’officio di calcolar li lunarij», il cosiddetto “taccuino” e copiosa fu la sua produzione di strumenti; nella cattedrale di S. Petronio realizzò un grande gnomone (che sarà ricostruito successivamente da Giandomenico Cassini nel 1653).
Mentre si trovava a Perugia nell’estate del 1577, ricevette dai Priori l’incarico di rilevare la «corografia» di tutto il territorio, che dipingerà («grande 15 piedi») ad acquarello su una parete dell’aula del governatorato del palazzo; tutto si perderà durante un errato restauro nel 1798. L’opera colpì il cardinale Giacomo Boncompagni24, vicino al papa Gregorio XIII, che darà incarico a Danti di eseguire il rilievo delle regioni di tutto il Patrimonio; compito che il cosmografo domenicano non potrà tuttavia portare a completamento. Sarà infatti proprio Gregorio XIII in persona ad avocarlo presso sé, a Roma, per affidare lui il compito di realizzare le illustrazioni corografiche della Galleria del Belvedere e l’anemoscopio della Torre dei Venti, nei Palazzi Vaticani.
Ugo Boncompagni (1502-1585), della nobiltà romana, eminente giurista ecclesiastico, era divenuto papa Gregorio XIII il 14 maggio 1572, oramai settantenne e quand’era già anziano ufficiale papale. Tra le massime personalità nella storia dei pontefici, ebbe ruolo di primo piano tra i personaggi del sedicesimo secolo, legando il suo nome a tre eventi di spicco: quale esperto giurista, prese parte al Concilio di Trento (1545-1563), dove in alcune sessioni fu delegato di Pio IV; da papa, attuò il “contrasto dinamico”, e sistematico, nei confronti del protestantesimo (notte di S. Bartolomeo)25 e la riforma del calendario. Oltre alla realizzazione di opere pubbliche26 che fossero in grado di ridare lustro all’immagine della Chiesa e di Roma stessa, all’epoca ridotta ad un ammasso di rovine, Gregorio «[…] mandò per molti luoghi d’Italia varij Prelati a visitare le Chiese, il Clero, & i luoghi, & correggere gli abusi, con ampla auttorittà, & ridurre le cose in buono stato.»27 Papa Gregorio, inoltre, inserirà Danti nella Commissione che riformerà il calendario, della quale quest’ultimo sarà membro autorevole, secondo a quanto pare soltanto a Christopher Clavius.28
Egnatio Danti, frate predicatore, matematico, cosmografo, geografo, cartografo, artefice di tanti “ordigni” tecnologici (gnomoni, anemoscopi, armille, mappamondi), lettore del Cielo e della Terra, sarà fatto Vescovo di Alatri l’11 novembre 1583, l’anno del «Giubileo plenario» (Monaldo Monaldeschi, Comentari); annus terribilis, di copiose nevicate, tremende gelate, soprattutto al centro e nel sud della penisola29 e conseguenti tremende carestie. Caduto gravemente malato sulla via del ritorno da Roma (dove aveva prestato la propria consulenza per posizionare l’obelisco/gnomone di piazza S. Pietro)30, nei pressi di Valmontone, morirà il 19 ottobre 1586 nella sua sede episcopale: qui, nella cattedrale, rimane di Danti soltanto la lastra tombale con la sua effige; le spoglie furono dissotterrate poco dopo la morte e se ne persero le tracce!
L’opera cartografica di Danti è a giudizio dell’Almagià, generalmente di tipo derivato; si tratta cioè di realizzazioni che traggono spunto da cartografia preesistente; le carte rilevate invece sono quelle costruite dopo apposito rilievo diretto sul terreno. Si vedrà più avanti come il cosmografo perugino, per quanto concerne la realizzazione di carte per atlanti e corografie parietali, si avvalesse della letteratura geografica in circolazione durante quegli anni (soprattutto di Gastaldi, forse il migliore del periodo); come pure delle «[…] tavole di Tolomeo, misurate perfettamente e ricorrette secondo gli autori nuovi, e con le carte giuste delle navigazioni, con somma diligentia fatte le scale loro da misurare, et i gradi, dove sono in quelle, et nomi antichi e moderni […].»31

Il destinatario (committente?).
Egnatio Danti realizzò la carta dello Stato orvietano per Monaldo Monaldeschi della Cervara, “Signore di Trivinano e Canonico di San Pietro a Roma”.
A differenza del geografo perugino, scarsa è la documentazione biografica a suo riguardo; fu l’autore dei Comentari Historici, […] Ne’ quali oltre a’ particolari successi della Città d’Oruieto, & di tutta l’antichissima, & nobilissima Prouincia della Toscana, anticamente descritti, Si contengono anco in modo di Annali, le cose più notabili che sono successe per tutto il Mondo, dall’edificatione di detta Città d’Oruieto, infino all’Anno della Salute nostra, MDLXXXIIII.
Monaldo, discendente dalla antica nobile famiglia orvietana dei Monaldeschi -protagonista, insieme agli antagonisti Filippeschi, delle vicende orvietane medievali cittadine e comitali tanto da meritarne citazione sul Purgatorio dantesco32, è lo storico della famiglia, un “Guicciardini nostrano”, solida “spalla” dell’ambizioso fratello Sforza Monaldeschi. Quest’ultimo viveva tra il palazzo di città33 e il castello di Torre Alfina, residenza di campagna34 alle opere di ammodernamento e di restauro del palazzo e del castello lavorarono sia Ippolito Scalza che Cesare Nebbia (Satolli), due artisti ben noti anche a Danti. Tra l’altro gli stessi Scalza e Nebbia negli anni 1573-‘74 lavorarono sulle storie del Miracolo di Bolsena.35 Torre Alfina, dimora preferita, fu luogo di partenza e punto di arrivo di tanti viaggi che Monaldo narra sulla sua opera letteraria. Nel 1579, durante uno di questi, che lo portò a Milano e Venezia, giunse a Bologna ove ebbe modo di vedere «[…] l’officio di calcolar li lunarij […] fatto di nuouo al tempo del Gouernatore Cesis, le belle scole per lo Studio, & molti edificij […] fatti & ristaurati & massime il Vescouato dall’Illustrissimo e Reuerendiss. Cardinal Paleotto & il conuento delli Frati di S. Domenico […]»36 dove risiedeva anche frate Egnatio Danti.
I venti libri dei Comentari stando a quanto asserisca l’autore stesso, vorrebbero costituire la replica di Monaldo a Francesco Sansovino, «[…] historico (che) nel 1582 […] mandò in luce una sua opera dell’origine & dei fatti delle famiglie Illustri d’Italia, tra cui i Monaldeschi. […] & per questo suo libro - prosegue Monaldo - & per quello delle Città d’Italia doue si tratta della patria e della Casata mia, ho conosciuto ch’egli non ha quella informatione che si ricercarebbe per poter scriuere intieramente quanto si ricercaria. Onde anco per questo mi son mosso […] facendo questa raccolta […] in prescia, così che altri possa hauere notitia di qualche cosa di questa patria, & di questi paesi.»37
Laudator temporis acti, apologeta dello status quo e ispiratore delle azioni di Sforza Monaldeschi, Monaldo, che ebbe senza dubbio anche «[…] ruolo di ideatore della concezione generale e suggeritore dei temi particolari presenti nei cicli affrescati sia a Torre Alfina che ad Orvieto […]»38 pur nell’intento di riproporre la grandeur di casa monaldesca attraverso il racconto apologetico delle gesta e l’immagine rievocativa dei luoghi del “buon governo” di Ermanno (vedasi la carta di Danti), traccia invece (chi sa se e quanto inconsapevolmente) l’epitaffio; il “canto del cigno” sulle imprese di Sforza, ultimo condottiero dei Monaldeschi che poi, nel Seicento, usciranno di scena. Come l’“araba fenice” che ogni mezzo millennio risorgeva nuova dalle proprie ceneri, così (giusto a cinquecento anni dal presunto capostipite monaldo)39 i Monaldeschi potevano rinascere dal memento gloriae (e dei trionfi sforziani) di cui Monaldo si fa artefice.
I Monaldeschi furono davvero una grande dinastia. Com’è vero che tra le metà dei secoli XIII e XIV la fama della famiglia traboccò dai confini comitali per assurgere a ruolo di protagonista della storia italica. Ebbe esponenti di spicco come Francesco, vescovo di Orvieto e Firenze (benedisse la pietra di fondazione della cattedrale di S. Maria del Fiore, come riportato sulla lapide murata nel fianco del duomo a latere del campanile di Giotto)40. Poi Manno e Beltramo, figli di Corrado, rispettivamente dominus ed episcopus di Urbs Vetus, del suo contado e della sua Chiesa; un principato compiuto, maturo per essere “traghettato” nei territori del Patrimonio di Pietro, durante la seconda metà del Trecento, dal cardinale Egidio Albornoz; fu costui a realizzare in Orvieto, come anche a Narni e Spoleto, i bastioni della Rocca; ma qui da noi la funzione simbolica è fin troppo evidente, trattandosi di un sito naturalmente munito, strategicamente e tatticamente già predisposto grazie alle alte rupi che lo cingono e fanno dell’acrocoro di tufo un’isola rupestre.
Nel Libro Terzo dei Comentari Monaldo introduce la trattazione dell’antico Stato della città di Orvieto «[…] e d’altri luoghi uicini intorno, e delle Città, e Terre, che con esso confinano, ò confinauano. Imperoche ogn’uno sa, che li confini, e territorij delle Città, e Castella della Toscana, e d’Italia, sono spesso uariati, e mutati, per diuerse cagioni. Però descriueremo molti luoghi intorno, che la Città dominaua: circa l’anno 1300. Allora, che era in liberta, e si reggeua a Commune, e popolo.41 […] e così si ponerà fine allo scriuere de Paesi, e questo poco s’è fatto senza seruar’ordine, rimettendoci a quelli, che ne hanno scritto più distintamente, & alla descrittione del P. F. Egnatio Danti, & altri […].»42 Monaldo Monaldeschi fissò un preciso momento della storia orvietana; quando i suoi antenati – Ermanno, signore e Beltramo,vescovo – reggevano “corpo” e “spirito” dell’antica città e del suo contado.
Nonostante i molti punti di contatto tra gli scritti di Monaldo e la carta di Danti, si vedrà quanto sia difficile poter stabilire in modo inequivocabile il motivo per il quale venga realizzata la corografia del territorio di Orvieto; ovvero, se questa scaturisca da una commessa o si tratti di una “spontanea” iniziativa.

L’opera.
All’epoca di Danti la Geografia di Tolomeo43 non era più il punto di riferimento al quale si erano richiamate in passato gran parte delle realizzazioni geografiche medievali e rinascimentali. La distinzione stessa tra geografia (descrizione del globo terracqueo nel suo complesso) e cosmografia (descrizione di una o più parti del globo), quest’ultima comprensiva delle ventisette carte attribuite a Tolomeo stesso44, aveva fatto scuola. La monumentale opera tolomeica aveva ormai assunto sola valenza retrospettiva già nell’edizione di Basilea, del Munster (1540), come anche in quelle veneziane di Gastaldi (1548), Ruscelli (1561) – che farà da modello per le tavole della Galleria delle carte geografiche in Vaticano e, successivamente, di Magini (1596). Il Theatrum, imponente lavoro di Abramo Ortelio (1570), prima e, successivamente, l’edizione di Mercatore (1578), per il quale Tolomeo ha un esclusivo valore storico, segneranno il declino definitivo del Geografia. 
Danti, in una lettera all’Ortelio del 24 dicembre 1580, così scrive: « Molto Magnifico et eccellente Signore. Il molto valore di V.S. et il comodo che ho cavato dalle onoratissime fatiche sue, me le fa essere grandemente obligato et portarli grandissima afetione et per mostrargliene qualche piccolo segno, ho preso sicurtà di scriverli questi due versi et insieme mandarli la descrittione che ho fatto levandone la pianta con lo strumento diligentemente, siccome ho fatto per la maggior parte dello Stato della Chiesa, per comandamento del Papa, che mi ha poi condotto in Roma, a fare una descrittione d’Italia in una Galleria, che S. Santità ha fatto; […] Hora vo riducendo ogni cosa in un libro […] Ne ho voluto dare avviso a Vostra Signoria, acciò che se lei avesse volontà a farmi intagliare questo libro, che me lo faccia sapere, che io opererei con il Papa, che ci porgesse qualche aiuto.»45 Non è dato di sapere se il grande geografo e cartografo fiammingo rispondesse o meno a Danti; certamente ne pubblicherà la carta bellissima del Pervsini Agri, stampata a Roma nel 1580 da Mario Cartaro, sul magnifico atlante Theatrum Orbis Terrarum, nella cui edizione italiana del 1593 verrà stampata anche una versione di quella del Territorio di Orvieto.
A Danti, plausibilmente formatosi sulle Geografie di Tolomeo e Strabone (pubblicato in latino, a Roma, nel 1470), in virtù della propria appartenenza ad un ordine dotto e della residenza nell’altrettanto dotta Bologna, forse certamente non sfuggì la Storia Naturale di Plinio il Vecchio (di cui si conoscono ben trentotto edizioni tra il 1469 ed il 1532); ma verosimilmente anche le riproposizioni di Aristotele, Plinio e Mela nello Speculum naturale di Vincenzo di Beauvais, del Tesoretto di Brunetto Latini e della Sfera del Sacrobosco; forse ebbe modo di visionare il Milione di Marco Polo; l’Imago Mundi del cardinale Pierre d’Ailly; l’Historia Rerum Ubique Gestarum, di Papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini; il Delle navigazioni e dei viaggi… di Giovanni Battista Ramusio ed il Novus Orbis Regionum, meglio noto come Raccolta di Grymaeus (dal nome dell’editore che la pubblicò a Basilea nel 1532) dove, oltre ai resoconti dei viaggi di Cadamosto, Colombo, Pinzon, Cabral, Vespucci, Magellano e Marco Polo, si riportavano una descrizione della Terra Santa e l’Enchiridion, riassunto della quarta Decade di Pietro Martire d’Anghiera.
La carta del territorio orvietano, già nella Collezione Bianconi, fu acquisita dall’I.G.M. (parte attraverso donazione, parte in acquisto) intorno al 1905 dagli eredi del Prof. Giuseppe Bianconi di Bologna46. Venne esposta alla Mostra di carte geografiche dell’Italia dal secolo XIV alla fine del XVIII nell’ambito dell’VIII Congresso Geografico Italiano, tenutosi a Firenze tra il 29 marzo ed il 6 aprile 1921. Così viene descritta nel catalogo estratto dal vol. III degli Atti congressuali, curato dall’Almagià e pubblicato a Firenze nello stesso anno dalla Fratelli Alinari: Originale, per l’innanzi sconosciuto, del quale il presente esemplare, di proprietà dell’Istituto Geografico Militare, è l’unico fino ad oggi noto»”. Non è possibile ricostruire il viaggio erratico della carta fino alla collezione Bianconi; di certo non fu, quest’ultima destinazione, a mere funzioni di arredo47.
L’Almagià, a proposito dell’Italia del Magini, cita l’Urbisveteris … La carta dantiana originale è rarissima; l’unico esemplare da me visto è posseduto dall’Istituto Geografico Militare di Firenze. E’ un’incisione in rame che misura cm 47 x 67 compreso il margine graduato, ma senza indicazioni numeriche. […] Non vi è nome di incisore, né scala.»48; così come nel suo Monumento Cartografica Vaticana fa riferimento ad un altro esemplare simile custodito presso la Biblioteca Apostolica Vaticana: «[…] La carta è estremamente rara. Ne conosco soltanto un altro esemplare posseduto dalla Biblioteca dell’Istituto Geografico Militare e riprodotto in ALMAGIÀ, Monumenta, Tav. L, ma esso rappresenta una tiratura anteriore […] L’esemplare vaticano è inserito […] nell’Italia Antiqua del Cluverio, che fu in mano di Luca Holstenio e contiene sue postille autografe.»49 Anche il nostrale architetto Satolli cita l’Urbisveteris …, a proposito però dell’esemplare conservato presso la Biblioteca Nazionale a Roma, omologo a quello vaticano descritto dall’Almagià; Satolli ne parla come della «[…] prima pianta del territorio orvietano antico (quello su cui s’erano fondate la ricchezza e la potenza della città-stato medievale), disegnata – forse sulla base dei rilevamenti di Ippolito Scalza – e incisa nel 1583 da Ignazio Danti cosmografo del papa.»50

Caratteristiche della carta corografica Urbisveteris ….
Si tratta di una calcografia51, un’incisione in rame eseguita a secco col bulino, come risulta evidentemente dal tratto, da certi particolari descrittivi (il tratteggio delle ombre nell’orografia, il riempimento del mare e degli specchi d’acqua); l’uso dell’acqua forte sarà di quasi un secolo dopo, importato dai Paesi Bassi. La carta52, in bianco e nero, è stata incollata sopra un supporto di tela e appare in buono stato di conservazione. Sono tuttavia rilevabili qua e là sporadici segni di deperimento del materiale cartaceo, soprattutto lungo i bordi e lungo due coste di ripiegatura; queste ultime peraltro ulteriormente rinforzate a tergo. Una vistosa macchia, dovuta ad un probabile schizzo di china (rossa o altro colore ossidatosi), è presente nella parte alta a sinistra, tra i toponimi Albegna e Alboigano; l’inchiostro ha impregnato localmente la carta causando, una volta essiccatosi, profonde screpolature localizzate.
Dimensioni. Tutta la carta misura circa cm 68 x 42; le diagonali, circa cm 79,5. La carta dovrebbe esser stata verosimilmente sottoposta ad una qualche forma di restauro durante la quale è stata operata una rilegatura; risultano pertanto essere stati effettuati tagli lungo i bordi, soprattutto lungo il margine superiore e quelli laterali, plausibilmente per eliminare parti danneggiate; tali tagli hanno interessato anche alcuni lati della cornice grafica del disegno stesso. La conferma a ciò ci viene dalle dimensioni date dallo stesso Almagià che, come già visto, erano “47 x 67” nel 1922, rispetto alle quali la nostra risulterebbe essere stata sicuramente ridimensionata in altezza di ben 5 cm circa, per poi ridursi drasticamente a “65,5 x 40” nel 1929 (cfr. nota 48).

Apparato iconografico. La carta è delimitata tutt’intorno da una cornice graduata, senza alcun riferimento numerico, alla quale, nel margine inferiore, si affiancano due ulteriori strisce parallele, non graduate. Ciascun lato lungo consta di 72 celle, ciascun lato corto di 46; la somma di queste celle cui vanno a sommarsi le quattro poste agli angoli della cornice dà 240 celle, ognuna delle quali di dimensioni pari a mm 9 x 5 circa.
Per praticità di consultazione si è realizzata una riproduzione con sovrapposto un reticolo costruito sulla base della suddivisione in celle dei bordi. Le celle ricavate sono numerate in ascissa da 1 a 72, in ordinata da I a XLVI. Il centro della carta è appena sotto Latera (coordinate: 36; XXIII).
In alto, appena decentrata a sinistra, su due righe tra di loro centrate si legge la scritta:
VRBISVETERIS.ANTIQVAE.DITIONIS/DESCRIPTIO
Otto stemmi, simmetricamente disposti in due gruppi da quattro, situati rispettivamente a destra e a sinistra della rappresentazione, all’incirca equidistanti dai margini laterali della cornice, compaiono disposti ad arco subito al di sotto della prima riga del titolo. In ciascuno dei due gruppi sono riprodotti, allineati agli estremi, due scudi con gli stemmi araldici del Comune53, un po’ più in basso due scudi da torneo, del tipo a tacca54, con l’arme nobiliare dei Monaldeschi, sormontati da un elmo con cancello calato e cimiero a foggia zoomorfa55, tra svolazzi piumati; ogni arme evoca un ramo monaldesco: cervo, vipera, cane e aquila; tutti rampanti e volti a manca.
Nell’angolo sinistro, in basso, vi è un’edicola contenente la lapide dedicatoria, sul frontone della quale troneggia il blasone dei Monaldeschi56, in cui è riportata un’iscrizione che risulta suddivisa in tre parti. La prima parte è una presentazione dell’autore che rivolge i saluti al destinatario:
«F•EGNATIVS•DANTES•ORD.•PRAED.:/ILLVSTRISS•MONALDO•MONALDESCHIO/S•P•D/[…]» … «Frate Egnatio Danti dell’Ordine dei Predicatori porge i suoi più cari saluti57 all’illustrissimo Monaldo Monaldeschi./[…]». E continua: «[…] CVM Italiam omnem in quadraginta tabulas diuisam/in ambulacro Vaticano pingi curarem, ad Vrbisqз Veteris di=/tionem peruentum e∫set, illius limites, oppia, totiusqз loci as=/pectum sum descriptione complexus: quam nunc ad amplitu=/dinem tuam eo mittere constitui, quod scio te his quoqз stu=/dijs delectari, atque ideo spero descriptionem ipsam tibi fore/non iniucundam,prefertim cum Illustri∫∫imam familiam,/tuam, et Vrbisuetris, et finitimorum locorum principatu/obtinui∫se historiarum monumenta te∫tentur, praecipue/ uero quae infra scribetur ipsius Vrbis annalium pars./ Tu uelim haec quam uis leuiora, grato animo accipias, su=/periormqз, et praesentem domesticae tuae virtutis glori=/am contemplere. Vale. Romae. IX Kalendas Aprilis/ M•D•CLXXXIII […]» ... «Mentre sovrintendevo alla raffigurazione delle quaranta tavole di tutta l’Italia, nell’ambulacro vaticano, una volta giunti a quella del dominio di Orvieto, inclusi tutte le città e il paesaggio in una corografia che ho deciso di inviare anche58 alla tua eccellenza, considerati i tuoi interessi; pertanto, mi auguro che il lavoro non ti sia sgradito, poiché documenti storici – in modo particolare quella parte degli ‘annali’ sulla stessa Orvieto –  attestano che la tua illustrissima famiglia dominò sulla città e sul contado. Accogli benevolmente questa piccola cosa, nella quale spero tu possa ritrovare la gloria passata e presente del tuo casato. Ti saluto. Roma, 24 marzo 1583.59/[…]». L’iscrizione prosegue: «[…] Hoc anno M•CCC•XXXIIII Hermanus Domini Cu=/rardi di Monaldensibus fuit factus dominus Vrbisueteris/qui postquam accepit dominium, dimisit Clusium Pe=/rusinis, ut haberet pacem cum eis, et ipse dominatus e∫t potenter super ciuitatem, et comitatum, et uallem/ Lacum, uallem Clanis, montem Meatum, comitatum Il=/debrandesium, et sanctae Florae, super Balneoregium,/ montem Pelium, et circumquaqз fecit dirigi salicarique/ stratam ab Urbeueteri usque ad Clancianum.»
«[…] In quest’anno 1334, divenne principe di Orvieto Ermanno del Signor Corrado dei Monaldeschi, che, dopo aver assunto il potere, lasciò Chiusi ai Perugini, per consolidare la pace con essi e governò autorevolmente sulla città, sul contado, e sulla val di Lago, sulla val di Chiana, sul monte Amiata, sulla contea Ildebrandesca (alludendo al vescovo conte Ildebrando di Soana), e su quella di Santa Fiora (queste due contee – ildebrandesca e di Santa Fiora – erano nelle “terre aldobrandesche”, già facenti parte di una donazione di Matilde di Toscana, alias di Canossa), su Bagnoregio, sul monte Peglia e su tutto il circondario; fece sì che fosse raddrizzata (forse rispetto ad un precedente tracciato più tortuoso) e selciata (pavimentata, secondo l’uso etrusco-romano) la strada da Orvieto fino a Chianciano.»60
Intanto, due particolari saltano subito all’occhio; il primo, che rispetto alle dimensioni dell’edicola – al termine dell’iscrizione – resti vuoto troppo spazio; il secondo, che l’iscrizione risulti divisa in due parti, delle quali la seconda (quella su Ermanno) evidentemente scritta con caratteri differenti dalla prima parte – come fa notare l’Almagià stesso –; il che potrebbe far supporre un’aggiunta successiva; questo spiegherebbe in tal caso anche il difetto di calcolo nelle dimensioni dell’edicola. È come se l’autore avesse ritenuto di dover lasciare uno spazio da riempire con dati che sarebbero stati acquisiti in un secondo tempo. Forse questi dati potrebbe averli forniti lo stesso Monaldo, una volta visionata un’eventuale bozza della corografia forse inviatagli da Danti stesso. Non a caso, allora, la seconda parte d’iscrizione riporterebbe quasi fedelmente proprio un passo dei Comentari, nei quali il Monaldeschi tratta di Orvieto, delle sue terre e dei “castella” del “contado”:
«[…] Anno Domini 1334 […]. Manus Domini Corradi fuit factus Dominus Vrbis Veteris: qui postquam accepit dominium, dimisit Clusium Perusinis, ut Haberet pacem cum eis; & ipse Mannus dominatus est potenter super Ciuitatem & Comitatum, & Uallem Lacus, Vallem Clanis, Montem Meate, Comitatum Ildribandensium, et Sanctae Flore, super Balneoregium, et circunquaque…ipse etiam fecit dirigi & saliciari stratam ab Vrbe vsque ad Clancianum […]./ Ex cronica di Giouan Villani libro xj. Capitolo x.»61 «[…] Gli Oruietani erano gouernati da Ermanno Monaldeschi della Ceruara in pace, & buono stato, hauendo egli potenza, haueua contratta, ò rinouata amicitia con il Commun di Perugia […] et fece fare […] la strada Salciata da Oruieto sino a Sartiano, et Cianciano.»62 A queste citazioni Monaldo aveva premesso: «[…] Ermanno fu fatto nell’anno 1334.assoluto Signor di Oruieto, & tutto suo stato & dominio, il quale era grande in questo tempo: percioche conteneua Chiusci, la Val di Chiani, il Monte Meato, il Contado di Santa Fiore, con tutto l’antico contado Ildribandino, Acquapendente, tutta ual di lago di Bolsena, Bagnorea, con molti luoghi giù per la Teuerina, & verso Todi & Perugia tutto il distretto d’Oruieto: Ma egli per hauer pace con li Commun di Perugia, & ammorzare pericolosa guerra, & mantenere l’antica amicitia, gli concesse & lasciò la Città di Chiusci […].»63
Padre Egnatio, stando a quanto riportato in iscrizione, mentre era atteso a dipingere in ambulacro Vaticano le quaranta tabulas nelle quali era stata suddivisa l’Italia, realizzò la carta con lo scopo di sottoporla alla visione (ei mittere constitui) di Monaldo. L’ispirazione gli sarebbe venuta proprio mentre stava realizzando la regione orvietana, che si ritrova sia nella tavola Etruria sia in quella Patrimonium S. Petri della Galleria del Belvedere (che diverrà successivamente “delle Carte Geografiche” nel complesso dei Musei Vaticani). In particolare, sull’arcata del soffitto (che riporta dipinta la serie Miracoli), nella lunetta sovrastante la tavola del Patrimonium … vi sono rappresentati “Il miracolo di Bolsena e la processione che porta a papa Urbano IV in Orvieto il corporale macchiato dal sangue dell’ostia” e “La contessa Matilde di Canossa dona i suoi possedimenti alla Chiesa”64.
Per l’Etruria Danti riporta, pressoché inalterati, quasi tutti gli elementi riscontrabili nella Chorographia Tusciae65 del 1536, di Girolamo Bellarmato, come ebbe già a sottolineare il cartografo Antonio Magini, autore (a cavallo dei secoli XVI e XVII) dell’Italia; questo è un atlante in cui si ritrova una carta del Territorio di Orvieto, verosimilmente tratta dai lavori dantiani (“ma le analogie sono solo parziali e non molto strette”, Almagià). Quest’ultimo sottolinea come «[…] per la redazione delle mappe affrescate sembra che il Danti si sia servito della vecchia xilografia del Bellarmato (1536) senza eseguire personalmente nuovi rilievi sul territorio orvietano, per l’incisione della VRBISVETERIS … […] – della quale si conoscono almeno tre redazioni con varianti e correzioni (ottenute peraltro dallo stesso rame) – utilizzò materiali migliori che non potevano essere altri che quelli predisposti dallo Scalza […]»66.
Danti con tutta probabilità non eseguì rilievi diretti sul territorio orvietano, come fece invece per quello perugino (in minima parte già rilevato dal padre Giulio), secondo quanto asserisce egli stesso in una annotazione nell’edizione romana del 1586 del Trattato del Radio Latino: «[…] Il medesimo modo che nella precedente operatione si è tenuto, nel levar di lontano la pianta dei beloardi d’una fortezza, ci servirà in levar la pianta di qual si voglia provincia, et io, per comandamento della santa e gloriosa memoria di Papa Gregorio XIII l’anno 1577, et 1578, 79 et 80 ho leuato con questo medesimo strumento agevolissimamente la pianta di più provincie, come fu tutta la Romagna, una parte del Vmbria et del Latio et di Sabina et tutto il Territorio di Perugia et di Bologna et grandissima comodità mi arecò il poterlo piegare et spiegare senza smontare da cavallo et anco il poterlo portare all’arcione, senza impiccio nessuno.»67
La carta che stiamo esaminando è ben diversa da quelle parietali vaticane, rispetto alle quali è certamente più completa nei contenuti, per quanto meno curata nell’aspetto68. E’ vero, tutto è relativo. Se dovessimo comparare questa ad altre bellissime e raffinate rappresentazioni coeve, anche dello stesso autore – e penso non senza meraviglia alla carta del territorio di Perugia – certo la nostra, nonostante le ricercatezze del corredo iconografico e allegorico, apparirebbe sì un po’ bruttina, quantomeno sotto il profilo meramente estetico.
Egnatio Danti, per l’Orvietano, si avvalse, come visto, dei rilievi topografici eseguiti da Ippolito Scalza. Quest’ultimo, scrive Satolli, «[…] esperto anche come cartografo […] rileva anche quelle aree consistenti del territorio orvietano, su commissione del Comune e della Camera Apostolica, permettendo così ad Ignazio Danti di dipingere le mappe della Galleria delle Carte Geografiche in Vaticano e pubblicare, dedicata a Monaldo Monaldeschi (nel 250° della Signoria di Ermanno), la prima rappresentazione topografica a stampa del territorio orvietano. […] L’incisione in folio del cartografo pontificio, riferendosi all’antica giurisdizione del territorio di Orvieto, intende rappresentare, in realtà, la carta geo-politica dello Stato Orvietano nel XIII secolo, ma risulta utile, per la serie di toponimi che contiene riferiti a località scomparse già nel ‘500, anche per un’indagine su siti ipoteticamente preesistenti all’epoca medievale (magari d’epoca romana) di cui allora restava memoria. La mappa […] servirà di base a tutte quelle incise come moderne nei due secoli successivi (dal Magini al Janssonius al Coronelli)./ Il Sanvitani nel 1662 ne farà una copia fedele modificando solo la dedica e con una pretenziosa aggiunta nel titolo (VRBISVETERIS ANTIQVAE DITIONIS ACCURATA DESCRIPTIO), ma arricchendola anche con le prime vedute di alcuni Castelli dell’orvietano […]»69.
Danti realizzò un’opera di indubbia valenza storica ma non geograficamente “attuale”, come in Vaticano, dove riprese Bellarmato e forse addirittura Leonardo stesso – che certamente praticò e conobbe le terre settentrionali della regione orvietana – (dal quale anche Girolamo Bellarmato potrebbe aver attinto abbondantemente). Leonardo, che intorno al 1503 aveva già realizzato una pregevole rappresentazione dell’Etruria, oggi custodita presso la Royal Library di Windsor (n. 12277 del catalogo), aveva realizzato anche schizzi topografici dell’area come quello inserito nel Codice Atlantico70.
A proposito dell’attualità della VRBISVETERIS …, valga come esempio che sulla carta non vi sono riportati limiti amministrativi alcuni, diversamente dalla carta del Perugino (che pubblicherà Ortelio nel 1584), dove invece i confini sono ben delineati, o con la tavola vaticana Pervsinvs ac Tifernas, in cui, nel settore contermine all’Orvietano, centri abitati presenti sulla carta per Monaldo (per es. Casaglia) si ritrovano appartenenti al dominio cinquecentesco di Perugia.
Questo conferma dunque lo scopo non esclusivamente “celebrativo” ma anche, e soprattutto, didascalico dell’opera di padre Egnatio nel relazionarsi e completarsi con gli “annali” monaldeschi; laddove proprio Monaldo intende raccontare, anche attraverso le cronache degli antichi fasti della propria famiglia la storia di una Nazione, di uno Stato e del suo Popolo, di un’enclave su – ed in – un territorio, di un ecumene: in una parola, dell’Orvietano.
Misure. Almagià mette in evidenza come nelle tavole vaticane «[…] non vi è dubbio, in ogni modo, che il Danti si attiene, come misura fondamentale, al miglio di mille passus, cioè al miglio romano, corrispondente, in misura moderna, a m. 1480 circa, e che egli conta 60 miglia per grado, come si può agevolmente constatare in base al confronto con la graduazione marginale, che è divisa in minuti: la lunghezza di un minuto in latitudine equivale sempre alla lunghezza di un miglio sulla scala […]» (ritocchi posteriori a parte).71
L’immagine corografica all’interno della cornice risulterebbe quindi compresa entro un reticolo (virtuale) di 72 x 46 (per un totale di 3.312) celle, di circa 9 mm x 9 mm (81 mm2); la rappresentazione incornicia una porzione territoriale compresa in 414 mm di latitudine x 648 mm in longitudine; la superficie complessiva della carta sarebbe pari a circa 268.272 mm2, cioè 0,268272 m2. Stando ai calcoli dell’Almagià ogni cella misurerebbe in gradi, 1’ di latitudine x 1’ di longitudine che equivalgono alla distanza di 1 miglio quadrato, ovvero a m2 1.480. Essendo il numero delle celle 3.312 se ne ricava che la corografia coprirebbe una superficie di 3.312 miglia quadrate pari a circa 4.901.760 m2: 46 miglia in latitudine (68 km ca.) x 72 miglia in longitudine (107 km ca.). In realtà, com’è possibile rilevare osservando il disegno, la superficie di territorio riportata è ben inferiore se si escludono i settori occupati dal mare e quelli vuoti ai vertici della rappresentazione. Da un rilievo approssimativo l’area di territorio disegnata sarebbe compresa in circa 2.440 celle quindi, 2.440 miglia quadrate pari a circa 3.611.000 m2: una quarantina di miglia in latitudine (meno di 60 km) per una sessantina in longitudine (quasi 90 km).
Risulta oltremodo arduo tentare di attribuire una scala alla nostra carta. Tuttavia, se i 9 mm misurati per ogni cella della carta stanno a un miglio di mille passus, o miglio romano, equivalente a 1.480 m ca., si avrà una scala di 1:164.444. Possiamo anche constatare che grossomodo il territorio  rappresentato da Danti risulta compreso entro poco più di quattordici fogli della Carta topografica d’Italia, serie 50, scala 1:50.000, edita dall’I.G.M.72 ( si tenga conto che alcuni fogli sono per lo più costituiti da mare) in cui ciascun foglio copre 610,5 km2. Ora, poiché in vero l’intera Urbisveteris … è più o meno delle dimensioni di un singolo 50.000 I.G.M. (d’ora in poi, 50K), bisogna considerare che in Danti 1’ equivale a 1.480 m, sia in latitudine che in longitudine, mentre nel 50K 1’ equivale in latitudine a 1.850 m e in longitudine a 1.375 m. Ne consegue che quattordici fogli 50K per km2 610,5 coprono una superficie reale pari a km2 8.547,5, mentre l’antica corografia copre una superficie di circa 3.600 km2. Queste incongruenze non devono intimorire, tantomeno trarre in inganno. Non è possibile comparare dal punto di vista geometrico le due opere. Le nostre precisioni moderne nulla hanno a che fare con i tentativi e le approssimazioni dei pionieri della topografia e della geodetica, ante litteram. In effetti i fini, i targets – si direbbe volendo mutuare da un linguaggio tecnicistico-imprenditoriale di moda – sono molto differenti; allora si andava alla ricerca di un mito stando molto attenti a non interferire con le cose di Dio, più che cercare la precisione si provava a descrivere la perfezione della mano divina presente nella realtà oggettiva; oggi, nella società secolarizzata filiata dall’ideologia neoreligiosa illuministica della rivoluzione francese, la ricerca ossessivo compulsiva della precisione è divenuta una inderogabile necessità, un esercizio di zelo maniacale dove per maniaco debba intendersi riferito ai “mani”, le divinità …. La nostra ricerca di precisione ha a che fare con l’estrema ricerca di specializzazione, ovvero di sempre più profonda suddivisione, separazione; per conoscere sempre di più oggi si tende a dividere sempre di più, allontanandosi progressivamente dall’origine stessa della ricerca finendo per perdere di vista le connessioni tra gli oggetti di studio e la matrice da cui questi derivano. 
La carta di Danti è lontanissima da tutto ciò. È una descrizione di un’antica realtà territoriale; paragonabile per assurdo ad un moderno esercizio di analisi geopolitica (volendolo dire con Satolli) anche se ante litteram73. In questo senso, si capisce, non ha importanza alcuna che la rappresentazione corografica di Danti fosse geometricamente corretta e topograficamente corrispondente.
Orientamento. Le moderne carte sono costruite con il lato superiore convenzionalmente  corrispondente al Nord74. Questo non vale per la carta VRBISVETERIS …. Tra l’altro, nella nostra edizione non compare neanche la Rosa dei Venti presente nelle due copie successive della Biblioteca Nazionale e di quella Vaticana. La nostra carta pare costruita su un meridiano ideale ortogonale ai lati orizzontali impostato sull’andamento degli assi fluviali Paglia – Chiani, fino a Orvieto e poi, Paglia – Tevere. Tale pseudomeridiano non segue la direzione Nord – Sud. La direzione del Nord come oggi la si conosce, potrebbe essere grossomodo rappresentata, nella VRBISVETERIS …,  dal virtuale prolungamento dell’asse Viterbo – Orvieto; vale a dire con buoni 45° di scarto dal margine superiore della carta.

Elementi caratteristici geografici. 
La carta è un sistema comunicativo. Attraverso l’immagine viene rappresentata la realtà geografica di una regione che, pur partendo da un’osservazione soggettiva, con l’ausilio di simbologie convenzionali cerca di approssimare, nella maniera più oggettiva possibile (per quanto l’‘oggettivismo’, in assoluto, sia ‘fisicamente’ irraggiungibile), quella visione del mondo. 
Il segno (il simbolo grafico convenzionale dell’immagine) e la parola (il toponimo e le sue funzioni attributive del significato) sono gli elementi caratteristici strumento-veicolo dell’informazione che “viaggia” sulla carta quale riproduzione di una realtà territoriale; sono “modulazioni dell’onda portante”, quest’ultima costituita dalla rappresentazione cartografica. 
Per l’analisi semiologica dell’opera di Danti, si è fatto largo uso di quella che può certo definirsi la “bibbia” geografica di François De Dainville, Le langage des géographes. Qui si riportano sistematicamente i termini che definiscono le caratteristiche degli elementi geografici, fisici ed antropici; l’opera si rifà, a sua volta, ai lavori analoghi di due grandi geografi di fine Seicento: P. Lubin, che nel 1678 pubblica a Parigi il Mercure géographique ou le Guide du curieux des cartes géographiques, e Sanson con l’Introduction à la géographie (Paris, 1681 e 1697).
Orografia. Nella carta di Danti risaltano in prevalenza monti e colline; in particolare, il rilievo, nelle more dell’epoca, viene riprodotto convenzionalmente e per gran parte senza nomi, “evocando senza ritrarre”. I monti sono rappresentati secondo i cosiddetti “mucchi di talpa”, ovvero “par alignements de taupinières ou rangées de pains de sucre” e, anche se in maniera più intuitiva che scientifica, è possibile ricavarne qualche informazione di carattere morfologico. De Dainville a proposito delle maniere di rappresentare i rilievi fa notare che “ne donnent aucun idée de la surface, de la hauteur ni de la pente de la montagne”75.
Tuttavia, se si osserva, ad esempio, la zona montuosa circostante il M. Lapelia (Monte Peglia; quadranti 61 – 63, XV – XVI), si rilevano alcune differenti tipologie di rilievi. Quello di M. Lapelia è dominante rispetto a tutto il resto; ma anche i rilievi evidentemente minori sono posti rispettivamente in relazione tra di loro. Infatti sono evidenti i rapporti relativi tra le dimensioni (più o meno consistenti), le altitudini (“favori” e “soggezioni” di quota) e anche sull’aspetto morfologico di base (cucuzzoli, mammelloni, pianori, etc.). Se, per esempio, si esaminasse a campione il gruppuscolo di “montagnole” circoscritto da un corso d’acqua (torrente Fersinone), in alto a destra rispetto a M. Lapelia (quadranti 63 – 67, XVIII – XXII), salterebbero immediatamente all’occhio i rapporti dimensionali e di quota ivi sussistenti. S. Vito (oggi, S. Vito in Monte, fraz. di S. Venanzo) sovrasta Baccano (per inciso, un “bel” toponimo riconducibile a “baccanti” e “baccanali”); Frattabalda (potrebbe trattarsi del “M. di Balle” i cui resti di abitato si ritrovano su una carta topografica fatta a Vienna a metà Ottocento) domina Casaglia (“la Torraccia”, cfr. nota 1. Il sito appare “veristicamente” rappresentato sopra un pianoro allungato). Le relazioni morfologiche riportate da Danti e quelle reali corrispondono, avendole io potute verificare di persona.
In sostanza quello che ci è dato osservare è il tipico paesaggio “a poggi e buche”, secondo una felice metafora dell’insigne accademico fiorentino Prof. Fiorenzo Mancini, caratteristico della fascia antiappenninica che traversa Toscana Umbria e Marche.
Idrografia. Corsi d’acqua. In una rappresentazione cartografica è la distribuzione, la morfologia, il grado di raffittimento del reticolo idrografico, più che l’orografia, che meglio può dare l’idea del territorio reale; in effetti i corsi d’acqua, diffusi in maniera capillare, sono impiantati in modo tale da compartimentare la regione per aree omogenee, evidenziandone le peculiari caratteristiche. Dalla dimensione del tratto disegnato o dalla larghezza del letto è possibile dedurne le dimensioni relative: «[…] Les cours d’eau sont “les lignes qui vont en serpentant” (Sanson) […] les “traits tournoyants” (Lubin) suivant le plus possible le cours a reproduire. Ce trait grossit, se dédouble à mesure que la rivière grossit; l’espace entre les deux traits parallèles (…)» (De Dainville).76
Danti rappresenta i corsi d’acqua, compresi i minori, tutti con due linee parallele, ancorché con larghezze differenti, come fa Claudio Ducheti nella SENAE ET ADIACENTIUM LOCORUM DESCRIPTIO (1557).77 Al di là delle effettive dimensioni di fiumi, rivi e fossi, che in alcuni casi oggi potrebbero sembrare alquanto esagerate, è il loro corso ad interessare di più. Il disegno mette in risalto come risalendo gli alvei sia possibile raggiungere ogni settore del territorio; si evidenzia così la funzione duplice di collegamento o di ostacolo del corso d’acqua. Sono arterie di comunicazione, come nel caso di quelli rappresentati con una sezione più larga (Tiber; Paglia), in quanto navigabili; anche le rive e gli stessi letti possono essere percorsi (quando non in piena), consentendo di aggirare sia i rilievi, aspri – quindi “energeticamente” dispendiosi – e franosi sia i fitti boschi e per questo inquietanti, per le possibili “sorprese” che potevano riservare siano esse ferine o banditesche.
In merito alle caratteristiche impeditive di un corso d’acqua, importanti informazioni possono essere fornite andando a ricercare sulla carta la presenza dei ponti; la funzione di questi è quella di una “indicazione geografica” della reale necessità di dover oltrepassare un corso d’acqua che, almeno in quel punto, offre l’opportunità di superare l’ostacolo.
Nella carta i corsi d’acqua principali sono indicati con il nome seguito da F (flumen) o, nel caso del Tevere, FL:. È possibile rilevare almeno tre grandi settori corrispondenti ad altrettanti bacini – o gruppi di bacini – idrografici. Un settore “marittimo”; un settore “interno”; un settore “montano”. Ciascuna di queste macroaree territoriali è a sua volta caratterizzata da alcuni corsi d’acqua principali che sono indicati con un nome. Per il settore “marittimo”, a destra in carta, tre sono perlomeno i bacini idrografici di rilievo, tutti tributari del MARE TYRRHENVM: l’Albegna e il Fiore (Fiora), che scendono entrambi da una stessa zona montana dell’interno (che, oggi, si sa essere il Monte Amiata) e, più in basso verso il margine inferiore della carta, l’emissario senza nome del LAGO DI BOLSENA (si tratta del Marta). Questi tre fiumi sono rappresentati in visione prospettica e sembrano seguire un andamento obliquo dall’alto, a destra, verso il basso, a sinistra, ove sfociano nel mare; in particolare, l’Albegna segna il confine settentrionale del territorio rappresentato con la SENENSIS TERRITORII PARS e si getta nel mare prospiciente l’isola del Giglio al di sopra dello STAGNO di Orbatello (Orbetello). Nel settore “interno” Paglia e Chiane (Chiani) focalizzano la scena occupando dall’alto in basso quasi tutta la carta. Sono gli unici corsi d’acqua sui quali si ritrovano dei ponti. Attraversano un territorio a quanto pare fortemente antropizzato a giudicare dai numerosi centri abitati presenti e diversi sono gli affluenti che vi confluiscono. Appare evidente come Danti abbia realizzato le diverse origini dei due fiumi; il Paglia dai rilievi, il Chiani da una piana invasa da un bacino lacustre i cui bordi tratteggiati lasciano presupporre una certa indeterminatezza, forse dovuta alla variabilità del livello delle acque (tipico di ambienti palustri). Dopo la confluenza presso Orvieto del Chiani nel Paglia quest’ultimo va a innestarsi sul Tiber (Tevere), il cui corso segna il confine del territorio con l’VMBRIAE PARS. Per ultimo, il settore “montano”, delimitato dai corsi del Chiani, del Paglia e del Tevere; è imperniato sul bacino sinuoso del torrente Fersenone (l’attuale Fersinone); questi nasce nella zona del Peglia e confluisce in un altro corso d’acqua senza nome, nei pressi di Marsciano (si tratta del Nestore a sua volta tributario di destra del Tevere)78. Oltre a questi principali bacini fluviali, sono nominati anche alcuni corsi minori; l’Eluella (Elvella), che in carta confluisce nel Paglia da sinistra (destra dell’osservatore)79, appena prima di un ponte presso Acquapendente; il Mucaione, che confluisce nella riva sinistra del Chiani a destra dell’abitato di Bagno (Bagni); il Fossato delle setole, sotto Casaglia e La Faena sotto Ciuitellade coti (Civitella de’ Conti), entrambi “portati in collo” dal Fersinone. Nel Tevere confluiscono, sotto Castiglione (Castiglione in Teverina), il Riuo Torbido che scende da Bagnorea (Bagnoregio) e, un po’ più a sud, il Riuo chiaro. Queste denominazioni fanno chiaro riferimento al grado di limpidezza dell’acqua e possono dare informazioni sulla litologia e sulla stratigrafia dei terreni attraversati. Volendo escludere a priori eventuali problematiche connesse all’inquinamento ambientale80, per l’epoca quantomeno non certo paragonabili a quelli nostri contemporanei, si potrebbe rilevare che acque meno limpide sono quelle contenenti più materiale terrigeno in sospensione81; ad esempio la “valle dei calanchi” sotto Civita di Bagnoregio è opera dell’erosione delle argille, responsabili dell’intorbidamento dei corsi d’acqua. Viceversa, acque più limpide saranno quelle di fiumi che attraversano rocce non facilmente erodibili come, per esempio, basalti, rocce cristalline e calcari anche se, questi ultimi, sono invece aggredibili chimicamente dall’acqua (carsismo).
Specchi d’acqua. Qualsiasi superficie acquatica che non sia fluviale è riportata con punteggiatura. Così è per il Mar Tirreno, che copre quasi un quinto della carta (nel campo di sinistra), riprodotto nel tratto che va da Talamone fin sotto Corneto (odierna Tarquinia) quasi a S. Agostino (comunque non riportato in carta), nei pressi di Civitavecchia. I laghi sono riempiti con lo stesso tratto usato per il mare fatta eccezione per due minori, lasciati vuoti; tuttavia, alla fine del Seicento, «[…] si les lacs sont trop petits “les graveurs doivent les couvrir de traits parallèle”» come afferma in proposito De Dainville citando Lubin e Sanson82. Nella VRBISVETERIS …sono presenti altri cinque specchi d’acqua, dei quali almeno tre di dimensioni considerevoli. Partendo dal mare, lo STAGNO (oggi, Laguna di Orbetello), il LAGO DI BOLSENA e in alto a destra un lungo bacino disposto longitudinalmente, dai contorni tratteggiati (trattasi dell’antico padule della Val di Chiana). Sono presenti altri due bacini minori senza nome. Il primo, sotto Ansidonia (Ansedonia) del quale oggi rimane traccia nella Laguna di Burano; questo un tempo doveva avere dimensioni maggiori occupando l’intera spianata delimitata dalle pendici delle colline intorno a Capalbio e spingendosi fin sotto Ansedonia; qui la riva destra è rappresentata in carta come costa alta, similmente a quella della Tagliata, a fianco, opera etrusca connessa al porto di Cosa (che sorgeva nella collina sovrastante Ansedonia); un altro piccolo bacino si trova tra Pitigliano e Lateri (Latera), è il lago vulcanico di Mezzano che alimenta un torrente senza nome tributario del Fiora, l’Olpeta.
Nel Lago di Bolsena sono da notare le due isole, i quattro immissari e un’insenatura ben marcata. Le due isole non hanno nome, ma sono rappresentate con costruzioni e coste alte (sono la Bisentina, dirimpetto a Bisenzo – resti medievali dell’etrusca Visentium – e la Martana, su cui sarebbe stata confinata Amalasunta83). Dei quattro immissari, quello che scende da Grotte (Grotte di Castro) vicino alla foce presso Borghetto scorre incassato; altri due scendono rispettivamente da S•Lorenzo (oggi ricostruita nei pressi e denominata S. Lorenzo Nuovo) e da M•Alfino (Montalfina), nome quest’ultimo che denota come il castello sorgesse ad finem, lungo un confine: quello tra il contado orvietano e le terre del Patrimonio; un limes che Urbs Vetus non teneva certo in considerazione nel periodo storico cui si riferisce la carta (memento, 1334), ambiziosa com’era e avida di territori: Valdilago, Acquapendente e contee aldobrandesche, in primis. Un quarto immissario si insinua tortuoso nel lago a destra di Montefiascone. Ancora a destra il Danti ha voluto rappresentare un’insenatura uncinata delimitata da una prominenza della costa (un promontorio?); “occhio e croce”, forse potrebbe corrispondere all’odierna località del Gran Carro; l’insenatura, oggi non riscontrabile, potrebbe indicare delle terre al tempo inondate, quindi ipoteticamente anche un livello superiore delle acque84.
Lo STAGNO presso Orbatello (Orbetello) è rappresentato in comunicazione col mare, sia nel versante superiore (nel tratto in cui sfocia l’Albegna, per intendersi) tramite un canale che taglia il tombolo (oggi detto “di Giannella”) sia in quello inferiore, indicato come Tonibolo (odierno tombolo di Feniglia), dov’è disegnato un altro canale, più piccolo e sinuoso, il quale però sembra interrompersi prima della costa (forse era insabbiato?).
Il terzo bacino rappresenta l’antico padule della Val di Chiana; le rive sono tratteggiate, ad indicarne un certo qual grado d’indeterminatezza; la superficie contiene alcuni tratti rappresentati a “virgole” o “uncinati”: potrebbero stare ad indicare terreni periodicamente (stagionalmente?) emersi o possibili direzioni da seguire in navigazione evitando eventuali impaludamenti. Nel complesso, la rappresentazione del Lago della Valdichiana non è poi così dissimile da quella di Leonardo del 1503, conservata nella Royal Library.
Mare e coste. La linea di costa – peraltro non molto particolareggiata, fatta salva la zona di Orbetello che era evidentemente d’interesse e quella di P. Hercole (Porto Ercole) in cui sono presenti alcune piccole insenature, lasciate in bianco – è stata disegnata a “trattini”. De Dainville riporta che «[…] les marais sont marqués par de “petits traits […]” (Lubin). On les faisait au burin et non à l’eau forte»85 ; ulteriore conferma a quanto già detto dall’Almagià a proposito della tecnica di realizzazione della carta di padre Ignazio (vedasi in merito, nota 51).
Elementi fitogeografici. Danti non offre spunti particolari riguardo alla copertura vegetazionale dell’area. Qua e là sono disegnati – meglio dire, abbozzati – alberi isolati o piccoli gruppi; nel secondo caso, starebbero ad indicare la presenza di boschi. Non è possibile invece ricavare dal disegno il tipo di essenza vegetale. Ancora una volta De Dainville è in linea con quello che si può osservare direttamente: «[…] Lubin regrettait justement que les graveurs ne distinguent pas “la nature des arbres”». Pur tuttavia spiccano quasi come eccezioni gli alberi disegnati nei pressi di M Gabione (Montegabbione) e Frattaguida, che appaiono realizzati con maggior cura. Al di sotto della foce dell’Albegna si legge il nome Pineta, nella medesima località in cui esiste ancora oggi.86 Di certo Danti non ha utilizzato alberi per riempire spazi vuoti. Laddove li ha disegnati, dunque, vuol indicarne la presenza; in particolare, la zona montana del Peglia e quella costiera tra Capalbio e l’Albegna.
Centri abitati. Sulla carta sono riportati oltre duecentotrenta toponimi riferiti ad altrettanti siti antropizzati, variamente rappresentati a seconda dell’importanza, della funzione, delle dimensioni e della consistenza; centri residenziali, siti rurali, opifici, siti di rilevanza militare e siti religiosi.
De Dainville, riprendendo l’importante lavoro di Buchotte (Bu.) che, all’inizio del Settecento, organizzò sistematicamente le tipologie dei siti antropizzati quali questi sono stati via via rappresentati sulle carte nel corso dei secoli, ci mette a disposizione una vasta gamma di tipologie residenziali. «[…] L es graveurs du XVIe siècle ont repris aux miniaturistes médiévaux la figuration en perspective ou en élévation d’un groupe de batiments ceinturés de murailles, dominé de tours et de toits suggérant le caractère de la ville, fortifiée ou non, son importance par le nombre de maisons et de clochetons figurés autour du clocher, un o est généralement dessiné à la porte de l’église pour marquer le centre de la ville, à partir duquel se mesure la distance à un autre ville.»
Sull’elenco dei toponimi allegato a questa trattazione si riporta la corrispettiva attribuzione tipologica relativa a ciascun sito.
Centri residenziali. VRBEVETVM, per come viene disegnata ed avendo, unica, il nome scritto in caratteri maiuscoli, è certamente identificabile come la “Capitale” (Bu.) del territorio; si possono ritrovare sull’abitato rupestre, da destra, una parte di bastioni con casseri; una costruzione che potrebbe sembrare semicircolare (forse il pozzo della Rocca), tre piccole torri tra due più grandi, costellate di finestrelle; alcune abitazioni con finestre tra cui un grosso palazzo sul ciglio della rupe (forse quello di Bonifacio VIII?); altri bastioni con casseri; una torre su una porzione di rocca isolata rispetto alla rupe stessa.
Oltre ad Orvieto sono rappresentate le vedute prospettiche di altre sei città: Orbetello, Talamone, Acquapendente, Bolsena, Montefiascone e Viterbo.
Tra queste Orbetello e Acquapendente sembrano realizzate con dovizia di particolari. Della prima saltano all’occhio il mulino a vento ed i bastioni di levante; della seconda è la cinta delle mura con i casseri (se ne contano almeno dodici, quanto Viterbo) a conferirle una certa importanza.
Vi sono anche un consistente numero di borghi fortificati: Magliano, Tre Coste, Castro, Corneto, Toscanella, Alboigano, S. Fiore, Pitigliano, Sorano, Gradole, Marta, Campiglia, Proceno, Grotte, Chiaciano, Chiugi, Cetona, Ceruara, Bagnorea, Baschi, Pruodo, Marsciano, Poggio Aquilone, Migliano, Casaglia, Frattabalda, Greppolicheto, M Gioue, M Gabione, Castello della Pieue ed altri. «[…] La “urbanizzazione” del contado che i Sette mettono in atto, è la prova tangibile di come un buongoverno cittadino riesca a razionalizzare, a rendere funzionale, ciò che per definizione è il mondo dell’irrazionale, della natura indomita […]»87.
Siti religiosi. Danti ha disegnato in carta almeno tre tipologie di torri che si differenziano per la parte sommitale a seconda che quest’ultima sia rappresentata cuspidata, con una stanghetta verticale o libera. Verosimilmente le torri cuspidate e con stanghetta potrebbero rappresentare campanili appartenenti ad altrettanti edifici religiosi. In tal senso, sulla rupe orvietana si potrebbe riconoscere la skyline del duomo; tre piccole torri (una rappresentazione simbolica delle guglie o delle cuspidi del duomo?, di cui quella di sinistra senza pinnacolo sommitale) in cui sull’elemento centrale si staglia un segno “ad uncino” rivolto a destra che potrebbe stare a rappresentare il simbolo di “prioria”, secondo De Dainville: «[…] un baton de prieur … (Bu.), en général tourné vers la droite pour les prieurés d’hommes.»
Unica croce presente in tutta la carta è quella che compare sopra una torre di Chiugi (Chiusi).
Viabilità. Il sistema delle comunicazioni in un territorio – sistema vascolare e linfatico dell’organismo ecumenico – rappresenta, insieme e per tutti gli elementi caratteristici che lo contraddistinguono, il tessuto connettivo ideale al concreto sviluppo delle culture e delle civiltà; ma soprattutto luogo delle interazioni dinamiche con le realtà territoriali limitrofe. Sulla carta non sono riportate strade. Fatta esclusione per i ponti, elemento inconfutabile a testimonianza della presenza di una via di comunicazione, un possibile collegamento tra i vari centri abitati è soltanto, anche se plausibilmente, ipotizzabile. Non v’è dubbio che proprio Orvieto e altri siti importanti del suo contado costituiscano centri nodali di convergenza ed irradiamento di un fitto ed altrettanto articolato reticolo viario. La viabilità antica nell’ecumene orvietano – prima etrusca, poi romana e infine medievale – si sviluppava principalmente lungo due direttrici fondamentali. Una, attraverso l’asse di valle del Paglia e le pendici amiatine, prolungamento dalla Val d’Orcia (o sul parallelo asse di crinale Cetona-Rufeno) che risaliva sui pianori vulcanici volsiniesi da cui si diramavano almeno tre vie principali, verso Orvieto, verso il mare e su Viterbo. Un’altra direttrice seguiva i crinali (o le valli) dell’asse Montarale (dal Trasimeno – Perugino e dalla Valdichiana) – Peglia (area perugina e tuderte); quest’ultima parte integrante del “corridoio bizantino”.
Nei Comentari Monaldo Monaldeschi fornisce una buona descrizione della viabilità principale nel territorio, parlando degli itinerari percorsi durante i tanti viaggi che lo portarono in giro per la Penisola. Molti dei toponimi indicati da Monaldo sono presenti sulla carta di padre Egnatio: «[…] partij da Castel di Torre Alfina: & lasciando Acquapendente, arriuai al Ponte sopra il fiume Paglia […] di lì […] arriuai al Ponte & albergo di Centeno, luogo nominato anticamente, & anco nell’Itinerario dell’Imperadore Antonino, da Centeno per la strada maestra su per il fiume Paglia giunsi all’Hosterie di Paglia, doue ha principio detto fiume: di lì il primo giorno passando per la Scala, e S. Chirico, arriuai a loggio a Torranieri. Il secondo giorno passando Buonconuento, arriuai alla Città di Siena […] da Siena partendo passando Poggi Bonzi, San Casciano, & peruenimmo alla bella Città di Fiorenza […] Da Fiorenza per andare a Bologna, passai al nobil Castello di Prato, alla Scarperia, a Fiorenzola […]»88. Monaldo, descrivendo il ritorno da un viaggio, faceva rientro a Torre Alfina venendo da «[…] Foligni, & Spelle, & alla Madonna de gli Angeli, & d’indi a Diruta, a Ripaluella, a Prodo, & passando sotto Oruieto […]»89. E, in un altro viaggio ancora, provenendo da Perugia, «[…] in due altri giorni per la via delle Tavernelle, Piegaio, Montelione, Carnaiola, Monte Rubiaglio, & Castel Viscardo […]»90 giungeva alla residenza sull’Alfina.
La distribuzione dei siti antropici è prevalente sulle alture; il che dice come il sistema viario potesse verosimilmente seguire di massima l’andamento dei rilievi. Ciò consentiva di aggirare le aree più a rischio che, all’epoca, erano rappresentate dalle boscaglie fitte (loca deputati per sgradevoli incontri di fiere o briganti), paludi, letti dei fiumi (inondabili, in relazione alle condizioni stagionali e meteorologiche), gole e orridi, versanti dei monti molto aspri e scoscesi (franosi).
Sulla carta di Danti si possono ipotizzare i possibili percorsi delle direttrici principali analizzando la distribuzione dei ponti. Ben tre si ritrovano sotto Acquapendente. Quello più in alto nel disegno sarebbe da mettersi in relazione con la via che risaliva il Paglia ed entrava in Orcia sotto Radicofani; il ponte presso l’Elvella portava la strada che sale per Trevignano diramandosi su S. Casciano de’ Bagni e su S. Pietro Aquaeortus, seguendo i crinali che dal Monte Cetona s’innestano fino al Monte Rufeno; il terzo, parrebbe connettersi alla strada che sale verso la Bandita del Monte e Allerona.
Ponti. Se c’è un ponte, manufatto indice della volontà di superare un corso d’acqua in modo stabile e consistente di considerevole valenza strategica e tattica, deve plausibilmente esservi anche una strada. Nel XVI sec. e nella prima metà del XVII i ponti sulla carta sono spesso in prospettiva; ma generalmente sono rappresentati «[…] par “deux petits traits parallèles qui traversent le cours d’une rivière” (Lubin; Sanson) […]»91.
I ponti riportati sulla carta sono cinque sul fiume Paglia e tre sul Chiani.
Ben tre, dei cinque ponti sul Paglia, si trovano sotto Acquapendente; uno di questi «[…] si rifaceua di nuouo per ordine del Beatissimo Pontefice Gregorio XIII. & felicemente finito, gli fu posto nome, Ponte Gregoriano, doue prima Ponte di Acquapendente si chiamaua […]»92. Sul Ponte Gregoriano passava la Via Francigena, mettendo in comunicazione l’alta valle del Paglia con l’altopiano dell’Alfina (e l’Orvietano), il Viterbese (attraverso Bolsena-Montefiascone) e la Marittima Ildebrandina (Castro, Pitigliano, Sovana, Orbetello).
Altrettanto importanti erano i ponti sul Paglia presso Orvieto, uno a monte ed uno a valle; scrive Lucio Riccetti: «[…] Per undici volte, tra il 1307 e il 1311, i Sette deliberarono per i restauri ai ponti di S. Illuminata e di Mastro Ianne. Erano questi gli attraversamenti principali sul fiume Paglia; il ponte di S. Illuminata davanti al masso tufaceo di Orvieto metteva (e mette ancora) in comunicazione la città con la montanea, il monte Peglia, e con Perugia; più a Nord, a cinque chilometri dalla città, il ponte di Mastro Ianni era il punto cruciale della viabilità a lunga percorrenza che attraversava il territorio orvietano in direzione NS […]»93.
L’unico, fra tutti quelli rappresentati sulla carta, indicato col toponimo Ponte, è il terzo in basso sul Chiani, tra Fabro, Badia e Carnaiola, a proposito del quale ci dice ancora Riccetti, citando la Carpentier94: «[…] Lungo la strada per Arezzo e Firenze, all’altezza di Fabro si decide, nel 1298, di costruire un ponte per attraversare il fiume Chiani nella valle di Clavena95, sulla via nova. Due anni dopo, forse, si delibera ancora sulla costruzione del ponte sul Chiani, in quest’occasione detto pons prachulis96 […]»97.
Non sono rappresentati ponti sul Tevere, né tantomeno eventuali approdi o traghettamenti su barche, che comunque dovevano essere diffusi: si pensi all’antico porto etrusco, poi romano, di Palliano, presso la confluenza Paglia – Tevere o alla Madonna del Porto di Alviano. Forse lo stesso nome di Pruodo (odierna Prodo sul Monte Peglia; coordinate in carta: 59 – 60/XI – XII) stava ad indicare un “approdo” nel settore tiberino sottostante.

NOTE:

1 Il presente studio è stato oggetto di pubblicazione da parte dell’Istituto Storico Artistico Orvietano (= I.S.A.O.). Cfr. MANGLAVITI, S.; VRBISVETERIS ANTIQVAE DITIONIS DESCRIPTIO, La prima rappresentazione cartografica a stampa del territorio orvietano nell’anno giubilare 1583; Bollettino I.S.A.O. (= BISAO), L – LVII, 1994 – 2001; Orvieto 2002. Il ritrovamento della carta dantiana è avvenuto allorché fui incaricato dalla Comunità Montana “Monte Peglia e Selva di Meana” dell’analisi geo-topocartografica antica e recente relativa ad un’area del territorio demaniale orvietano; l’incarico avvenne nell’ambito di in uno studio su un’antica torre medievale (la Torraccia, in comune di S. Venanzo – prov. Terni) condotto dalla D.ssa Roberta Galli per conto dell’ente stesso; durante l’attività di ricerca e studio della cartografia antica del territorio orvietano in biblioteche e archivi fiorentini, rinvenni, nella biblioteca dell’I.G.M., questa antica riproduzione. Per approfondimenti si veda: GALLI, R.; “la Torraccia”; Comunità Montana “Monte Peglia e Selva di Meana”; San Venanzo (TR) 2000, in corso di pubblicazione. In particolare si è potuto rilevare come la torre in questione, parte di un complesso fortificato ben più ampio, possa essere ricondotta al toponimo Casaglia presente nella carta del Danti.
2 La Biblioteca dell’I.G.M., già parte integrante del convento della SS. Annunziata, raccoglie quasi 130.000 elementi cartografici da tutto il mondo, 8.000 dei quali antichi, e 150.000 testi letterari prevalentemente di carattere scientifico. L’annesso Museo strumenti, forte di 400 pezzi, è una finestra sul mondo della ricerca e degli studi geodetico-topo-cartografici, dal 1750 alla metà del Novecento.
3 Cfr. FABIETTI, U. - MATERA, V;. Memorie e identità, Simboli e strategie del ricordo; Roma 1999.
4 NUMA BROC; La geografia del Rinascimento, Carpi 1989, p. 31.
5 BRASINI, L.; Orvieto al tempo di Pio IV, 1559-1565, da un’immagine prospettica di Ippolito Scalza, Orvieto 1988, p. 2. 
6 GUSDORF, G.; Les origines des sciences humaines, Paris 1967.
7 BRASINI, L. op. cit., pp. 3 -4; il corsivo tra parentesi è nostro.
8 “Da queste tecniche (grafiche) riceviamo le immagini di un’azione storica o religiosa spesso mitologica oppure concettualmente scientifica…Qualità materiche che le opere avevano sin dalla loro origine ma non per questo distoglievano lo studioso dal messaggio scientifico contenuto”, IVI, p. 3; il corsivo tra parentesi è nostro.
9 IVI, p. 62, nota 1. Senza voler scomodare Platone (mito della caverna) e la mimesis aristotelica, va comunque sottolineato come nell’indagine geografica l’immagine cartografica possa condizionare notevolmente l’osservatore che, tramite questa, ha la possibilità di fare esperienza cognitiva di una realtà altrimenti inafferrabile a livello sensibile.
10 Martin Lutero (giurista tedesco, agostiniano) contro il primato papale, la tradizione e l’infallibilità conciliare; Ulrich Zwingli, svizzero, parroco e cappellano militare, che, come Erasmo, si pone contro ogni forma di intolleranza religiosa; il francese Jean Cauvin, fautore di un nuovo integralismo ‘catartico’; l’Accademia Ginevrina; la sottomissione della Chiesa anglicana al sovrano inglese.
11 PERALI, P. Orvieto, Note storiche di topografia e d’arte, dalle origini al 1800, Orvieto, 1919, p. 204.
12 Il sec. XVI vede una nuova fioritura dell’attivismo laico, il movimento degli Oratòri, ed una rinnovata attenzione della Chiesa ‘ufficiale’ alle problematiche assistenziali e didattiche: Cappuccini, Barnabiti, Orsoline, Salesiani e le fondazioni di San Carlo Borromeo.
13 PERALI, P., op. cit., p. 204.
14 IVI, pp. 204, 205.
15 IVI, p. 202.
16 BRIGHETTI, A.; Alle origini del famoso “orvietano”, Bollettino dell’Istituto Storico Artistico (=B.I.S.A.O.), XXII, 1966: “Gregorio Ferrante, detto l’Orvietano”, è figlio di  “Girolamo Ferrante da Ficulle”.
17 PERALI, op. cit.(vedi nota 11), p. 206.
18 IBIDEM. 
19 IVI, p. 237.
20 Domenico di Guzmàn (1170-1221) fondò nel 1215, a Tolosa, l’Ordine dei Frati Predicatori, dopo un viaggio in Germania nel quale intuì l’importanza della predicazione su tutto; là, alloggiato in una locanda, aveva passato una notte intera con l’oste, eretico cataro, convertendolo. Colto, avendo ricevuto una solida educazione, impresse nella sua regola due dettami di fondo, lo studio e la predicazione, ché l’intelligenza è dono divino.
21 A Parigi il Pensiero e la Weltanschauung domenicani andavano per la maggiore; lì l’Ordine rappresentava la corrente razionalistica della Scolastica, ponendosi a contraltare dei francescani di Oxford, vessilliferi del misticismo.
22 In realtà si tratta dello “studiolo” di Cosimo, destinato a custodire i tesori privati e più cari del duca.
23 «Questo capriccio et inventione è nata dal duca Cosimo, per mettere insieme una volta queste cose del cielo e della terra giustissime e senza errori, et da poterle misurare et vedere, et a parte et tutte insieme, come piacerà a chi si diletta et studia questa bellissima professione»; VASARI, Vite.
24 Nel 1576, Gregorio XIII – al secolo Ugo Boncompagni – “…fece Generale della Chiesa Giacomo Buoncompagno suo figliuolo nato di lui auanti hauesse gli ordini Sacri…”. Cfr. M. MONALDESCHI DELLA CERVARA, Comentari Historici, in Venetia MDLXXXIIII, rist. anast. 1984, p. 198.
25 La notte di S. Bartolomeo, 24 agosto 1572, furono trucidati almeno 20.000 ugonotti (3.000 soltanto a Parigi). Gli eidgenossen (confederati; così detti i ribelli ginevrini dai partigiani dei Savoia) erano detti in Francia i calvinisti, cui l’Editto di S. Germain (1562) aveva concesso libertà di culto.
26 Promosse poderosi investimenti nell’edificazione e ristrutturazione di conventi e centri di studio cattolici a Roma (Collegio Romano), in Italia, in Europa e nel mondo, fino in Estremo Oriente (India, Filippine, Cina, Giappone).
27 MONALDESCHI, op. cit. (vedi nota 24), p. 200.
28 Clavius compare insieme agli altri membri, in piedi, mentre illustra al Pontefice i lavori della Commissione, su un affresco a Siena. 
29 MONALDESCHI; op. cit. (cfr. nota 24), pp. 205 e seg.
30 Ai piedi dell’obelisco di piazza S. Pietro, ricollocato da Carlo Fontana, disegnò solstizi, equinozi ed una rosa dei venti.
31 VASARI 1568, parte III, vol. II, p. 877; vol. VI, pp. 230-232, ediz. 1966-1969.
32 «[…] Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura, color già tristi, costor con sospetti […]», ALIGHIERI, D.; Divina Commedia, Purgatorio, Canto VI.
33 Palazzo di Sforza Monaldeschi, che lo fece costruire, poi de’ Marsciano; già sede dell’Istituto Leonino, prima, e Lazzarini, poi; oggi sede dell’Istituto Statale d’Arte; il portale è opera dello Scalza.
34 Sulla carta dantiana viene riportata come Villa monaldesca.
35 Su incarico del visitatore apostolico monsignor Alfonso Binarino – stanti il prevosto di Santa Cristina, Cherobino Novello e il rappresentante del consiglio generale della Comunità di Bolsena, Giovanni Romano – Scalza realizzò due lapidi di marmo rosso (di Prodo?) sulle quali scolpì la storia del miracolo, già raccontata nel 1563 su una pergamena del notaio orvietano Cesare Severo Durantino (ORVIETO, ARCHIVIO DELL’OPERA DEL DUOMO, Cum Advenit Sacri). Cesare Nebbia promise di dipingere tre storie del miracolo su tre tavolette di pietra del Tevere. Cfr. BUCHICCHIO F. T., FAGLIARI ZENI; La “storia del miracolo di Bolsena” e le sue vicende, B.I.S.A.O., XXIX, 1973, pp. 3-45.
36 MONALDESCHI, op. cit. (vedi nota 24), pp. 200v-201.
37 IVI, pp. 204v-205.
38 SATOLLI, A; La pittura dell’Eccellenza in La pittura a Orvieto dal rinascimento al manierismo, B.I.S.A.O., XXXVI, 1980, Orvieto 1987, p. 139.
39 Dalla genealogia di casa monaldesca tracciata dal Waley si evince che un Cittadino – capostipite – potrebbe essere vissuto verso la fine dell’XI secolo. Cfr. WALEY D.; Orvieto medievale, Roma 1985.
Diviziani scrive che i Monaldeschi “signori feudatari di Civitella d’Agliano e feudatari del castello della Cervara sono a Bagnoregio almeno fin dalla seconda metà del sec. XI”; essi discenderebbero da un Adenolfo di conti, detti, Lombardi. Cfr. DIVIZIANI, A.; Francesco Monaldeschi – Vescovo di Orvieto e di Firenze, B.I.S.A.O., XXII, 1966, p. 19. 
40 Lo dicono Diviziani e Riccetti, superando le incertezze di Pardi e Waley. Io stesso ho avuto un riscontro positivo, a proposito della figura di Francesco Monaldeschi, vescovo di Orvieto e Firenze, in un libro che ho rinvenuto presso la Fondazione “Giovanni Spadolini” a Firenze: la Cronologia sacra de’ Vescovi e Arcivescovi di Firenze composta da Luca Giuseppe Cerracchini Sacerdote fiorentino, Pronotario Apostolico, Pastore Arcade, e Accademico Apatista dedicata all’illustriss. e reverendiss. monsignore Tommaso Buonaventura de’ Conti della Gherardesca […] in Firenze, MDCCXVI, pp. 86-87, il quale traccia una biografia del nostro. 
41 MONALDESCHI; op. cit. (cfr. nota 24), p. 17v.
42 IVI, p. 21.
43 Tradotta in arabo già nel IX secolo; la prima versione ufficiale, dal greco, è quella di Jacopo Angelo per Papa Alessandro V (1409); L’Astronomia (l’Almagesto, in lingua araba) di Tolomeo era invece già nota nel sec. XII, nella versione latina di Gerardo da Cremona.
44 In realtà sembra che l’autore sia da ricercare in Agathodemon, sec. III. 
45 BERTOLINI, G. L; Su l’edizione italiana dell’Ortelio, in Scritti in onore di Giuseppe Della Vedova, Firenze 1908, pp. 302-303. Già in Abrahami Ortelii ac virorum eruditorum ad eundem … Epistolae …, edidit A. H. Hessel, Antuerpiae, 1887, n. 100.
46 Giovanni Giuseppe Bianconi (Bologna 1809-1878), professore di storia naturale all’università, direttore del museo di storia naturale, accademico benedettino dell’Istituto delle Scienze; nipote di G. Lodovico (Bologna 1717-Perugia 1781), filosofo e medico insigne, membro dell’Istituto delle Scienze, nipote a sua volta ed allievo di G. Battista (Bologna 1698-1781), sacerdote, teologo, letterato, ebbe maestro il padre domenicano, poi cardinale, Vincenzo Lodovico Gotti.
47 «[…] con il passare del tempo le carte persero l’originario compito e divennero, per il loro aspetto artistico di disegno e d’incisione, materiale d’arredo. Tale anomala destinazione ha provocato e provoca ancora ai giorni nostri, lo smembramento di moltissime edizioni librarie e di conseguenza la perdita di un vasto patrimonio culturale sia letterario che artistico […]», BRASINI, op. cit. (cfr. nota 5).
48 ALMAGIÀ, R.; “L’Italia” di Antonio Magini …, Napoli 1922, p. 67, nota 3. E ancora, dello stesso autore, Monumenta Italiae Cartographica, Firenze 1929, Tav. L: «[…] misura 65,5 x 40 […]».
49 La carta è riprodotta e descritta dal Prof. Almagià in: ALMAGIÀ , R.; Monumento Cartografica Vaticana, vol. II, Biblioteca Apostolica Vaticana, MCMXLVIII, ove fa un’analisi comparativa con quella dell’I.G.M..
50 L’architetto Satolli pubblica la versione conservata presso la Biblioteca Nazionale di Roma, da egli stesso definita quale “rara” carta del Danti (a cui fa riferimento peraltro l’Almagià trattando però l’esemplare vaticano gemello) su: SATOLLI, A.; Fortuna e sfortune della ceramica medioevale orvietana, in Ceramiche medioevali dell’Umbria, Firenze 1981, p. 38, fig. 3; e ancora, in: Orvieto antica nell’immaginario erudito e romantico, in Quaderni dell’Istituto Statale d’Arte di Orvieto, p. 29, fig. 3, Roma-Orvieto 1984.
51 Tipi di stampa. Xilografia; tavole di legno (=) incise a bassorilievo; le immagini, in rilevato, spalmate di colore vengono pressate in un torchio, quindi trasferite specularmente sul supporto (cfr. stampa tipografica (=, cioè: modello) inventata da Gutenberg di Magonza, 1450). Calcografia; da Maso Finiguerra, orefice fiorentino, nel 1452; si incidono ad altorilievo lastre di rame (=) col bulino/punta secca o con l’acqua forte. In entrambi i casi la prima fase consiste nel tracciare un disegno guida sulla superficie da incidere. Successivamente, mentre col bulino si segue via via la traccia disegnata in precedenza, nel secondo metodo la superficie viene ricoperta uniformemente con uno speciale composto a base di cera, pece e bitume che poi viene a sua volta inciso sulle tracce del disegno sottostante. In una quarta fase si versa l’acqua forte (acido nitrico, HNO3) che intacca il rame lasciato scoperto. Una volta ripulita la lastra dal composto coprente resta l’incisione che viene ritoccata e rifinita a bulino. Questo procedimento è più celere ma meno preciso. In tutte e due le tecniche le fasi di stampa comprendono il riempimento delle incisioni con inchiostri speciali attraverso un tampone, mantenendo pulita la rimanente superficie, ed infine il pressaggio della lastra, posta sopra il supporto cartaceo leggermente inumidito, con un cilindro molto pesante rivestito di tessuto tipo flanella.
52 Charta da , foglio; prob. egizio, preparato dal papiro; mappa è latino prob. dal fenicio, panno; entrambi fanno riferimento al tipo di materiale che funge da supporto alle rappresentazioni grafiche; carta è il prodotto di un impasto; mappa sta per tela, tovaglia ed è un prodotto tessile.
53 Nel gruppo di sinistra: oca volta a sinistra - entro scudo ovale, c.d. “da donna”, con cariatidi addossate, sormontato da serafino -; aquila con lambello angioino volta a sinistra – entro scudo ovale da donna sormontato da trionfo vegetale di fiori e frutta -. Nel gruppo di destra: la croce del popolo – entro scudo ovale da donna sormontato da trionfo vegetale di fiori e frutta -; il leone rampante a sinistra, recante una chiave sulla zampa sinistra e un gladio su quella di destra - entro scudo ovale da donna, con cariatidi addossate, sormontato da serafino -.
54 Del tutto simile a quello sull’ex libris utilizzato per un’edizione dell’Asino d’oro di Apuleio del 1516, nella Biblioteca Comunale di Orvieto; già pubblicato in SATOLLI.; La pittura dell’Eccellenza, op. cit. (cfr. nota 38), p. 98, fig. 24.
55 Nel gruppo di sinistra, cervo e vipera; in quello di destra, cane e aquila.
56 Scrive Satolli: “Quella dei Monaldeschi era, ancora nel Cinquecento, una delle famiglie più importanti della città e del territorio orvietano e … i più influenti personaggi di questa famiglia ritenevano i loro avi artefici e loro stessi depositari e rappresentanti della storia cittadina e, addirittura, della città di Orvieto, così come, materialmente, s’era strutturata e configurata nel tempo”; SATOLLI, La pittura dell’Eccellenza, op. cit. (cfr. nota 38), p. 129.
57 I saluti sono indicati con la tipica formula acronimica “S. P. D.” già dell’epistolario ciceroniano che sta per “salutem plurimam dicit”. 
58 Nel testo si legge “ei”, ma si tratterebbe più verosimilmente di “eo” con valore di “eo quod” causale.
59 Mia libera traduzione da quella letterale dei Dott. Giacomo Margheri e Mauro Marrani: “Mentre realizzavo nell’ambulacro vaticano tutta l’Italia, suddivisa in quaranta tavole, giunti ai domini orvietani, riportai i suoi confini, i suoi borghi ed l’intero paesaggio in una descrizione che ho deciso di inviare alla tua eccellenza, giacché so che tu ti diletti anche con questi studi; perciò spero che la descrizione in oggetto sia di tuo gradimento, specialmente perché documenti storici; soprattutto quella parte degli annali della città stessa, riportati qui sotto, che attestano come la tua illustrissima famiglia ottenne la signoria di Orvieto e del circondario. Vorrei che tu accettassi queste “poche” cose con benevolenza e vorrei che tu osservassi attentamente la gloria passata e presente del valore del tuo casato. Ti saluto. Roma, addì il nono giorno avanti le calende di aprile del 1583”.
60 Il testo incluso nell’edicola è oggetto di analisi critica nel saggio: MARRANI, M. - MARGHERI, G.; Analisi grafica e stilistico-formale del testo contenuto nell’edicola della carta orvietana di padre Egnatio Danti. Già in: MANGLAVITI, S.; VRBISVETERIS ANTIQVAE DITIONIS DESCRIPTIO …, op.cit. (cfr. nota 1).
61 MONALDESCHI, op. cit. (cfr. nota 24); p. 90.
62 IVI, p. 90v.
63 IVI, p. 89v.
64 Ai cicli pittorici lavorò anche l’orvietano Cesare Nebbia.
65 FIRENZE, ARCHIVIO DI STATO, Carte nautiche, n. 13.
66 Cfr. ALMAGIÀ, Monumenta …, op. cit.; cfr. nota 49, III, p. 41). Oltre che dall’Almagià, la pianta è stata recentemente pubblicata con scheda bibliografica in: ROMBAI, L. – CIAMPI, G. (a cura di); Cartografia storica dei Presidios in Maremma; Siena 1979, p. 60. SATOLLI; La pittura dell’Eccellenza; op. cit. (vedi nota 38).
67 Trattato del Radio Latino, istrumento giustissimo … inventato dallo Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Latino Orsini, con li Commentarii del Rev. Padre Maestro EGNATIO DANTI … in Roma appresso Marc’Antonio Moretti et Jacomo Brianzi. MDLXXXVI; pp. 107-108.
68 «[…] Solo più tardi il Danti venne in possesso di materiali migliori per il Territorio di Orvieto […]», in ALMAGIÀ, Monumenta …; op. cit. (cfr. nota 49), p. 41, nota 5. «[…] La carta è una mediocre incisione in rame, priva di scala nella redazione originale…è tuttavia più ricca di nomi della pittura vaticana soprattutto per il territorio tra Paglia e Tevere; non manca tuttavia di errori singolari […]», in ALMAGIÀ, Monumenta …; op. cit. (cfr. nota 49).
69 SATOLLI, Orvieto antica …; op. cit., p. 28.
70 Leonardo da Vinci, che fu anche “maestro d’idraulica”, effettuò analisi e rilievi per le bonifiche in Val di Chiana.
71 ALMAGIÀ, Monumenta …; op. cit. (cfr. nota 49).
72 Trattasi dei fogli dal 320 al 323, dal 332 al 335, dal 342 al 346, dal 352 al 354. Ciascuno dei fogli I.G.M. è costruito secondo le seguenti caratteristiche: Lat.=12’; dove 1’= mm 37 (sulla carta)= m 1.850, ergo, 12’= m 22.200. Long.=20’; dove 1’= mm 28,5 (sulla carta)= m 1375, cioè, 20’: m 27.500.
73 Già, perché la Geopolitica (e questo, tra l’altro, è proprio il mio specifico “campo” studiorum nonché professionale), neologismo del politologo svedese Rudolf Kjéllen (1916), nasce come materia scientifica nel secolo scorso, per approdare nel nostro Paese soltanto agli inizi del 1939. In quell’anno infatti, nel solco della tedesca “Zeitschrift für Geopolitik” (“Rivista di Geopolitica”), a Trieste, fa la sua uscita “Geopolitica”, diretta da Giorgio Roletto ed Ernesto Massi, autori già nel ‘31 di “Lineamenti di geografia politica: i confini”. Cfr. MANGLAVITI, S.; La visione geopolitica e le rappresentazioni geografiche. Un esempio …; in “l’Universo”; Firenze 2006; in corso di pubblicazione. E, MANGLAVITI, S.; La visione dei Balcani attraverso la produzione dell’Istituto Geografico Militare nel Ventennio; Tesi di Laurea in “Studi Internazionali”. Università degli Studi di Roma La Sapienza, Facoltà Scienze Politiche; AA: 2004-2005.
74 Il Nord, verso cui è orientata la parte superiore di una carta (sia essa geografica, corografica o topografica) corrisponde per costruzione geometrica al c.d. “Nord geografico”, ovvero al Nord della superficie geodetico-geometrica di riferimento (sia essa uno sferoide, un ellissoide, un geoide o qualsiasi altro solido di rotazione) dalla quale la carta deriva e della quale essa costituisce una particella. Si tratta in questo caso del punto in cui convergono gli infiniti meridiani tracciabili su quella superficie: a Nord tale punto rappresenta il polo Nord (geografico); a Sud, il polo Sud (geografico). Al Nord geografico si aggiungono anche il “Nord magnetico” (punto di convergenza delle infinite linee dei campi di forza rilevabili con la bussola; tale Nord non coincide con quello precedente e per questo è necessario operare delle compensazioni con appropriati calcoli matematici al fine di poter usare correttamente la bussola con la carta) e il “Nord rete” (punto di convergenza delle linee meridiane costituenti il reticolo sovrapposto ad una carta e riferito a una porzione locale della superficie di riferimento, il fuso, costruita rispetto ad un meridiano locale di riferimento. Anche il Nord rete può non coincidere con quello geografico; è per questo che spesso il reticolo sovrapposto ad una carta è “scostato” rispetto all’inquadramento della carta stessa).
75 «[…] Ce sont partout les memes hauteurs, toujours doucemente arrondies, ombrées par des tailles concaves et molles, du coté est et sud-est, parce que les graveurs travaillent avec la lumière à gauche […]». DE DAINVILLE, F.; “Le langage des géographes ; Paris 1964, p. 168.
76 IBIDEM. 
77 Cfr. riproduzione della Raccolta Lafreri, incisa da I.A.F. a Venezia nel 1570, 1572. Biblioteca I.G.M.
78 Sull’argomento si veda anche, MANGLAVITI, S.; Le rappresentazioni cartografiche del territorio del Fersinone: storia ed evoluzione.; in “La Valle del Fersinone” – “Convegni interdisciplinari per la scoperta del territorio del Fersinone e dei Castelli di Migliano e di San Vito in Monte. 16/17/23/24 ottobre 2004” – Province di Perugia e Terni; Comuni di Marsciano e San Venanzo. Atti in corso di pubblicazione.
79 Parlando di corsi d’acqua, la parte sinistra e quella destra fanno riferimento rispetto alla direzione della corrente fluviale. In una carta geografica, quindi, l’indicazione di una delle due parti potrebbe anche non corrispondere al punto di vista di chi osserva. È il caso del fiume Paglia che scorrendo in carta dall’alto verso il basso ha la sua riva sinistra alla nostra destra e viceversa.
80 Anche se già anticamente, nonostante forse una maggior consapevolezza riguardo alla primaria risorsa “acqua”: risorsa alimentare, energetica ed economica, nei fiumi scaricavano cartiere e concerie (altamente inquinanti). I sistemi fognari invece non esistevano (a parte la cloaca di Roma, collettore dei liquami di superficie che poi, comunque, finivano nel Tevere); acque nere e bianche scorrevano a cielo aperto lungo le vie e seguendo il corso di quelle dilavanti e meteoriche, andavano a confluire nel reticolo che alimentava il bacino idrografico locale. In ogni caso sistemi di canalizzazione metropolitana furono attuati in epoca etrusca e successivamente ripresi nel tardo Medioevo.
81 Le dinamiche idriche di erosione e trasporto sono responsabili delle quantità di “sospeso” presenti nell’acqua, che sono a loro volta inversamente proporzionali all’indice di coesione delle rocce attraversate. Materiali litici di minor compattezza come argille, arenarie e marne (ma anche scisti e sedimenti piroclastici) sono maggiormente erodibili dalle acque dilavanti, la cui dinamica abrasiva dà luogo alle tipiche morfologie calanchive (nel caso delle argille) e può ridurli fino a consistenze anche colloidali (granulometrie micrometriche).
82 DE DAINVILLE; op. cit.(cfr. nota 75).
83 Amalasunta era figlia di Teodorico il Grande, re degli Ostrogoti, e madre di Atalarico, che fu a sua volta re. Amalasunta per la giovane età del figlio fu reggente (526 – 534), dividendo il potere con Teodato alla morte di quello. Teodato la fece uccidere mentre prendeva il bagno nel lago (535).
84 Cfr. TAMBURINI, P.; Orvieto e il territorio volsiniese nella prima età del ferro, in B.I.S.A.O., XLIV-XLV, 1988-’89. Studi su orvieto Preromana; Orvieto 1992, pp. 60-61, figg. 20-22.
85 DE DAINVILLE ; op. cit. (cfr. nota 82), p. 157.
86 Le pinete costiere che oggi conosciamo derivano in gran parte da antiche piantagioni. Sono essenzialmente costituite da pino marittimo (p. pinaster), d’Aleppo (p. halepensis) e domestico (p. pinea). Si tratta di essenze endemiche dell’areale mediterraneo, ma autoctone in Sicilia, Sardegna e alcune isole minori; apprezzati per la velocità di crescita e la qualità del legno, sono da sempre utilizzati nelle costruzioni navali. Roma, prima, successivamente alcune potenze come il Granducato di Toscana, il papa, Venezia, crearono piantagioni a pineta lungo i litorali.
87 RICCETTI, L.; La città costruita. Lavori pubblici e immagine in Orvieto medievale; Firenze 1992, pp. 158-159.
88 MONALDESCHI; op. cit. (cfr. nota 24), p. 200v.
89 IBIDEM.
90 IVI, p. 201v.
91 DE DAINVILLE ; op. cit. (cfr. nota 82).
92 MONALDESCHI, op. cit. (cfr. nota 24), p. 200v.
93 RICCETTI; op. cit. (cfr. nota 87), p. 140.
94 CARPENTIER, E.; Orvieto a la fin du XIIIe siècle; Paris 1986, pp. 49 e segg..
95 Riformagioni, 71/I, c. 30r, 1298 aprile 21. Sezione di Archivio di Stato di Orvieto (=ASO).
96 IVI, 71/III, c. 41v, 1300 febbraio 17.
97 RICCETTI; op. cit. (cfr. nota 87), p. 140, nota 216.

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